Tempo di «vacanza». E dunque di «mancanza»? Se diciamo «vacanze» pensiamo a spiagge assolate o a cattedre vacanti? A laghetti alpini o a consigli damministrazione da rifare? La vacanza è una strana cosa: contiene ciò che le manca. Però per i latini il verbo vacare aveva un significato nettamente positivo: voleva dire «essere libero». Infatti quando siamo in vacanza al mare o in montagna, raramente ci capita di arrovellarci sui guai della scuola pubblica o sulle aziende in ristrutturazione. Perlopiù ce ne freghiamo. Ne siamo «liberi».
Quando le «peschiamo» dal grande mare del discorso ininterrotto che ci circonda e nel quale ognuno di noi (chi più, chi meno) versa il contributo di qualche goccia, ci accorgiamo che le parole spesso non vanno daccordo con le cose di cui dovrebbero essere testimonianza. Perché la parola si muove, mentre il concetto (che è la carta didentità della cosa) sta fermo. Meglio: si muove anchesso, ma molto, molto lentamente. Avrà anche ragione Flaubert a scrivere, in Madame Bovary, che la parola è «un laminatoio destinato ad affinare i sentimenti». Ma occhio a maneggiarlo con cura, questo laminatoio: altrimenti rischiamo di tagliare il senso autentico di ciò che diciamo, e dunque di ciò che siamo.
Da questo punto di vista, «inerzia» è, come «vacanza» (alla quale la lega una certa affinità...), unarma a doppio taglio semantico. Lo mostrano ottimamente i saggi raccolti nel volume Le virtù dellinerzia, curato da Antonio Sparzani e Giuliano Boccali (Bollati Boringhieri, pagg. 342, euro 36), dove i contributi di tredici studiosi in vari campi vengono inframmezzati da testi esemplari, partendo dal canto III dell«Inferno» dantesco, quello di «coloro/ che visser sanza nfamia e sanza lodo», per arrivare allEinstein della relatività. Il titolo evidenzia la scelta: dellinerzia si mostreranno le virtù, non i vizi (ozio, accidia...), né i difetti (superficialità, egoismo...).
Fra gli autori antologizzati non compare Carlo Michelstaedter, ricordato da Claudio Magris a proposito della «letteratura del disagio». Peccato, il goriziano avrebbe fatto buona compagnia a Jacopone da Todi, del quale è riportata la lauda 59, Lanema chè vizïosa, dove leggiamo: «LAccidia una fredura/ ci areca senza mesura,/ posta n estrema pagura/ co la mente alïenata». Se in Jacopone laccidia-inerzia è resa con le metafore del freddo e della paura che, si badi, agiscono sulla vittima immobilizzandola, cioè rendendola, appunto, inerte, il filosofo, in La persuasione e la rettorica (tesi di laurea mai discussa causa suicidio dellautore a 23 anni), usa limmagine del peso: « Non portate la croce, ma siete tutti crocefissi al legno della vostra sufficienza, che vè data, che più vinsistete e più sanguinate: vi fa comodo dire che portate la croce come un sacro dovere, mentre pesate col peso inerte delle vostre necessità. Abbiate il coraggio di non ammetterle quelle necessità, di sollevarvi per voi stessi...». Linerte sta lì fermo, dice Michelstaedter, perché non ha (non si dà) la forza di opporsi alla gravità, cioè al proprio peso. Non solo. Se non avesse la terra sotto i piedi, sprofonderebbe ancora più in basso, annullandosi.
Quella di cui parlano Jacopone e Michelstaedter è linerzia «passiva», in cui luomo cade quando non reagisce al mondo circostante. Poi, naturalmente, cè linerzia «attiva», «volontaria». A questa Bertrand Russell e Paul Laforgue attribuiscono una valenza politica, oltre che pratica, mentre, al contrario, Niccolò Machiavelli e Pietro Verri la additano come grave malattia della società. È linerzia di chi si ritrae, si isola dallumano consesso, linerzia esistenziale dellOblomov di Goncarov, indeciso a tutto, impossibilitato a ogni scelta, dallinfilarsi le scarpe a sposare la donna che ama. Linerzia che il mangiatore doppio di de Quincey non chiama inerzia, bensì «calma alcionia»: «su tutto regnava una tranquillità, non frutto dinerzia, ma risultato dun equilibrio di forze contrarie ed eguali; infinita energia, infinito riposo». Eccola, la virtù dellinerzia: «equilibrio di forze contrarie ed eguali», sapiente mix di energia e riposo. Altro che poltronaggine e fancazzismo: per essere inerti a puntino, ci vuole un impegno mentale mica da ridere. Tuttavia, conviene lasciare lOccidente e trasferirsi in India, in Cina e nel mondo islamico.
Abhinavagupta (XI secolo) non ha dubbi: «Sofferenza è, semplicemente e unicamente, lassenza di quiete». Nella cultura hindu il fine ultimo delluomo è linterruzione del ciclo delle rinascite, per raggiungere lo stato di moksha, «liberazione». Due i concetti chiave cinesi: wuwei, «senza agire», e soprattutto ziran, «naturale spontaneità». Linerzia, nelle epoche pre-imperiali (limpero sorse nel 221 a.C.) non è statica, al contrario, il saggio asseconda lo svolgersi degli eventi. Nello Zhuangzi si dice: «Lacqua che non viene contaminata è, per sua natura, limpida; se nessuno la smuove ha una superficie liscia, ma se viene ostacolata e le si impedisce di scorrere allora perde la sua limpidezza. È limmagine della Potenza del Cielo. Ecco perché dico: rimani puro e non farti coinvolgere, rimani in pace e in unità con il dao (il principio eterno e insondabile che governa luniverso, ndr) senza cambiare mai, rimani tranquillo e inattivo, muoviti sempre in sintonia con il Cielo. Questa è la Via per nutrire lo spirito». Gli islamici, poi, tengono ben saldo il principio del qada wal-qadar, ovvero «decreto e predestinazione», anche se in tema di libero arbitrio il Corano non fornisce indicazioni univoche.
Ma la più bella costruzione filosofica che eleva linerzia nellUno e dallUno è senza dubbio quella del neoplatonico Plotino, il quale, riferisce Porfirio, «sembrava vergognarsi di essere in un corpo». Probabilmente aveva capito, molti secoli prima di Heidegger, che esserci è, comunque lo si metta, un problema che neppure linerzia riesce a risolvere.
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