(...) rialzarsi, di cambiare la bicicletta e di completare con poche pedalate il suo capolavoro italiano. Morale della storia? La solita: si può cadere, nei momenti e nei luoghi più impensabili, ma la cosa veramente importante è rialzarsi il prima possibile. Con qualche livido, con qualche sbrego, ma senza tentennamenti e senza piagnistei. Alla fine il risultato arriva. Sul traguardo, Menchov trova pure il riconoscimento leale del suo avversario più grande, Di Luca: «Non mi sarebbe piaciuto batterlo per una caduta. Merita lui. Ha vinto il più forte».
Caro diario, scrivo queste note finali in una situazione ambientale piuttosto surreale. Il Mago Zom, dopo aver dissolto nel nulla il Mortirolo e il Gavia, la Marmolada e le Tre Cime di Lavaredo, lo Zoncolan e il Colle delle Finestre, riserva per il grande finale il suo numero più eclatante: cancella in un attimo secoli di storia e di architettura imperiale. Grazie al colpo di magìa, gli inviati di mezzo mondo si ritrovano a scrivere i loro reportage dentro un parking sotterraneo, ben lontano dalla sky-line mozzafiato dei Fori Imperiali, tra enormi zanzare che escono dai tombini e scrutano gli umani con occhiate poco rassicuranti.
Diciamolo: un numero epico. Portare il Giro del Centenario a Roma e rinchiudere tutti in un garage, accanto alle auto parcheggiate a lisca di pesce. Poi si dice che il Mago Zom non ha poteri taumaturgici: nessuno, in quasi tremila anni, era riuscito a nascondere tanto bene le bellezze di questa città. Lui sì. E non è ancora tutto. Mai porre limiti ai suoi poteri. Avanti di questo passo, se lo lasciano lavorare, gli riesce pure di far sparire il Giro.
Dirà lui che questo è il solito sfogo snob dei giornalisti viziati e pantofolai. Caro diario, sappiamo bene che la cattiveria può tornare tranquillamente al mittente: negli anni, s'è scritto nei posti più disagevoli e più improbabili. Al terremoto dell'Aquila come all'alluvione di Sarno, abbiamo scritto appoggiando il computer su paracarri e muretti, dentro nuvole di polvere. Non è questo il punto. L'autorimessa con le zanzare, da un punto di vista puramente lavorativo, va benone. Il problema è molto più serio: riguarda il prestigio e la griffe del Giro Centenario, per il quale - così pare - da mesi i cervelloni del marketing sfornano idee geniali (l'ultima: premiazione da Napolitano). E come no: poi si arriva a Roma e si parcheggia la stampa internazionale nell'autosilo in zona Eur. Standing ovation al celebrato gusto del "made in Italy". Standing ovation alla raffinata estetica del Mago Zom.
Per fortuna, la corsa - l'ultima corsa - non si addentra nei tuguri di prima periferia. La maglia rosa e i suoi avversari sfilano ad uno ad uno tra le gloriose bellezze della Roma vera e incantata. E almeno su questa cartolina, lo voglio dire volentieri, col massimo entusiasmo, possiamo sprecare qualsiasi superlativo: non c'è luogo al mondo che possa offrire una tappa così. Senza peccare di stupido patriottismo, nemmeno Parigi e i suoi celebrati Campi Elisi.
In questa cornice favolosa e toccante, Menchov chiude la pratica nel modo più rocambolesco e meritatamente si porta a casa il Giro. Il Giro più facile e più veloce del secolo. Il Giro senza tapponi, il Giro deciso da una cronometro esagerata, il Giro tecnicamente sbilenco e mingherlino che Di Luca ha mancato pensando troppo al secondo posto. Il Giro bonsai delle tappette e delle salitelle, che però ha richiamato puntualmente lungo le strade la bella Italia del Giro, l'Italia dei banchetti e dei dialetti, delle scolaresche e delle maestrine, dei boy-scout e dei vigili sudati, delle orsoline e dei cappuccini, delle nonne e delle zie, dei giovani e degli anziani. E questo, in fondo, è ciò che davvero conta: riscoprire, ancora una volta intatto, il misterioso richiamo romantico dell'ultima nostra festa nazional-popolare.
Caro diario, purtroppo la bella storia finisce qui.
Una corsa sbilenca e a due facce tra monumenti e garage sotterranei
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