«Così abbiamo ucciso il suocero di De Rossi

nostro inviato a Latina


Ammazzato alle spalle, dopo un giro in auto, per uno sgarro. Come nel Padrino. Il film dell'omicidio di Massimo Pisnoli, suocero del centrocampista della Roma e della nazionale Daniele De Rossi, agli inquirenti lo recita Gabriele Piras, uno dei due attori protagonisti del delitto del 7 agosto nella spianata di Campoleone, dietro lo scalo ferroviario di Aprilia. Un agguato pianificato a tavolino, dice a verbale l'assassino arrestato dai carabinieri. Per due ordini di motivi: perché Pisnoli avrebbe fatto il furbo nella spartizione del bottino di una rapina, e perché – a suo dire - si apprestava lui a far fuori i suoi carnefici.
La trappola. «Voglio dire subito, e voglio che sia verbalizzato, che io e Pino Arena abbiamo ucciso Massimo Pisnoli. Accadde un giovedì sera al tramonto (il 7 agosto, il cadavere fu ritrovato l'11, ndr). La sera in cui io e Arena uccidemmo Pisnoli gli avevamo dato appuntamento a Malagrotta con il pretesto che avremmo potuto fare una rapina insieme. Noi arrivammo a Malagrotta su una macchina Alfa Romeo 159. Feci scendere Arena prima di arrivare al parcheggio per evitare che Pisnoli lo vedesse subito. Questa volta mi ero portato una pistola 357 Magnum, mentre Arena aveva una pistola semi-automatica. Sotto il sedile davanti della macchina avevamo anche un canne mozze... Pisnoli non era armato, e salì sulla mia Alfa 159 davanti, Arena andò dietro. Siamo partiti verso la Laurentina dove ci siamo fermati in una strada laterale sterrata. Arena ha fatto scendere Pisnoli dalla macchina puntandogli contro la pistola nella quale aveva messo il colpo in canna davanti a lui. Pisnoli si stupì del comportamento di Arena e disse: “Che fai, Pino. Io non t'ho fatto niente”. In quel momento mi accorsi che alcune persone erano affacciate alle finestre delle case distanti qualche centinaio di metri. Così decisi di soprassedere...».
L'ultimo viaggio. «Risalimmo in auto diretti verso Campoleone, come era stato suggerito da Arena. Arrivati al parcheggio della stazione, Arena volle imboccare una stradina che si inoltrava verso i campi. Fermai la macchina in un punto coperto da un terrapieno e Arena disse a Pisnoli che poteva andare via a piedi. Pisnoli scese dall'auto e si incamminò sul sentiero che riportava al parcheggio. In quel momento Arena, come d'accordo con me, imbracciò la doppietta e sparò un primo colpo alla schiena di Pisnoli da una distanza di circa due metri. Subito dopo ne sparò un secondo. Pisnoli cadde a terra sulla schiena e Arena fece il giro del corpo fino ad arrivare vicino alla testa. E gli sparò un terzo colpo in testa dopo aver ricaricato la doppietta. Fui io a raccogliere le cartucce».
La fuga. «Dopo l'omicidio ci allontanammo velocemente da Campoleone diretti verso la casa di Pino Arena ad Ardea. Lungo la strada lui buttò dal finestrino i due bossoli del fucile e il telefonino di Pisnoli. Nessuno sapeva che io e Arena l'avevamo ucciso. Per la verità quando F. (...) lesse la notizia sui giornali, pensò che potessimo essere stati noi. Ma sia io che Arena negammo ogni coinvolgimento. Decidemmo di ucciderlo perché temevamo ritorsioni da parte sua nei nostri confronti. E anche perché se fosse stato arrestato per le rapine, avrebbe potuto coinvolgerci anche se non avevamo guadagnato nulla. Faccio presente che le poche volte che incontrai Pisnoli dopo l'ultima rapina, era quasi sempre ubriaco e aveva dei tremori.
L'incontro-scontro. Un paio di giorni dopo l'ultima rapina io e Pisnoli ci siamo dati appuntamento... Entrambi volevamo discutere una volta per tutte la questione del denaro di una rapina che Pinsoli chiedeva a me. Io arrivai con Pino Arena e Pisnoli era già lì e parlava con un ragazzo sui 30 anni che non conoscevo, notai che Pisnoli gli fece un cenno affinché si allontanasse... Lo affrontai e gli chiesi spiegazioni di quel ragazzo. Lui negò di conoscerlo e mi disse che era arrivato con un'altra persona rimasta nella Uno bianca poco distante. Io e Arena eravamo armati perché temevamo un'azione violenta da parte di Pisnoli.

Sapevamo che aveva con sé una pistola vera e un'altra giocattolo, e per questo eravamo preoccupati. Volevamo farlo desistere... Sapevamo che i soldi del bottino se li era tenuti lui, mentre invece continuava a chiederli a noi».

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