«Così ci imponevano la guerra santa»

da Milano

«Capimmo che le cose della Jihad sono tutte stronzate». È questa una delle dichiarazioni più eloquenti contenuta nel verbale di Tlili Lazhar, il collaboratore di giustizia che ai magistrati ha ricostruito il suo soggiorno nei campi di addestramento in Afghanistan e quel che aveva fatto a Milano, insieme ad altri tunisini, per finanziare e contribuire alla causa della Jihad. È lui a fornire una serie di elementi che hanno consentito agli inquirenti di definire le indagini su un gruppo di islamici accusati di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo. La sua storia comincia alla fine degli anni Novanta. Lazhar sbarca a Milano in cerca di fortuna. Il traffico di stupefacenti sembra una buona strada per raggiungere il soldo facile. È in questi ambienti che il futuro pentito incontra Rihani Lofti. È con lui che si avvicina alla moschea di viale Jenner. All’inizio solo per incontrare altri connazionali. Poi sempre più convinto che la causa islamica vada portata avanti. I due cominciano a vedere le videocassette che inneggiano alla violenza. Il «Brainwashing», il lavaggio del cervello è cominciato. Tlili racconta il suo viaggio e il suo soggiorno in Afghanistan per essere addestrato all’uso degli esplosivi e alla fabbricazione delle bombe. Ma un giorno «a causa di un mio errore mi esplose nella mano destra l’ordigno. L’esplosione mi lacerò la mano, io svenni e Lofti mi soccorse portandomi in ospedale. Quella esplosione fu uno choc per me ed anche per Lofti. Capimmo che le cose della Jihad sono tutte stronzate». Così sia Tlili che Lofti decisero «di farla finita e tornare in Italia».
Qui Tlili viene curato all’istituto ortopedico. «Non ho mai cercato di convincere gli altri mujaheddin che le loro erano tutte cazzate, anche perché loro erano convinti e, se ne parlavo, mi dicevano che non capivo niente di religione. A me è andata bene veramente, io mi sono svegliato».
Non così all’amico Rihani Lofti, morto in un attacco suicida in Irak nel 2003. Lazhar lascia l’Italia. Fugge in Francia, ma a Marsiglia viene arrestato per terrorismo. Racconta: «Sono stato picchiato durante gli interrogatori fatti dalla polizia di Parigi». «Una prima volta ho ricevuto prima tre o quattro schiaffi forti e poi cinque o sei pugni in faccia e le botte arrivavano quando non davo le risposte che loro volevano.

Mi uscì il sangue dalla bocca - sono le parole di Lazhar - e rimasi con il viso sporco di sangue fino al mio rientro in cella». Nel novembre scorso l’Italia chiede e ottiene l’estradizione di Lazhar. Allora ha chiesto di collaborare.

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