Così il crollo del Muro cambiò la storia d'Europa

Berlino si prepara alle celebrazioni con concerti ed eventi per ricordare la Cortina di ferro

Così il crollo del Muro cambiò la storia d'Europa

da Berlino

Die mauer muss weg!, il muro deve cadere. E il muro venne giù. Sono passati 30 anni e non sembra affatto ieri. Berlino è sopravvissuta a se stessa: metropoli in perenne divenire e non più capitale «povera ma sexy», come la definì il suo buergermeister Klaus Wowereit, primo sindaco del nuovo millennio. Berlino ha doppiato la linea del tempo e di quei 28 anni vissuti a est con un'enclave occidentale, paradossalmente libera, ma circondata da 155 km di doppio muro, assurdità e filo spinato. Povera a oriente, ostaggio a occidente.

Oggi la storia è a terra, scritta in una riga sottile e sinuosa di porfido che, con le ruote della bici, si scavalca a ogni sterzata. Ma la storia è anche nel cuore di tutti i berliner che ricordano quel 9 novembre 1989 come un'alba. Anzi come «l'ultima notte». In risposta a un giornalista italiano, una parola di troppo sfuggì dalle labbra del portavoce della Ddr Guenter Schabowski: «Per quel che so, il muro si può attraversare anche subito». Erano le 23.29 quando venne giù come un domino, con una notte di anticipo o, piuttosto, in ritardo su decenni di orrore.

«Voglio ci siano anche le mie», dice Anita che appartiene alla generazione «post mauer». Affonda le mani nel gesso per partecipare al calco collettivo con cui simbolicamente Berlino festeggia i suoi primi, nuovi, 30 anni. Concerti, sorrisi: sotto la porta di Brandeburgo, arriveranno la Staatskapelle Berlin, diretta da Daniel Barenboim, e la sacerdotessa del rock, Patti Smith. Già la musica: almeno quella a Berlino è stata sempre libera di alzarsi oltre cortina. Dalla neve di Berlino est cantata da Milva in Alexander Platz, ai giorni da Helden (Heroes) di David Bowie a Kreuzeberg fino a quel Lucio Dalla che al check point Charlie, un giorno s'imbatte in Phil Collins, seduto sulla panchina accanto: non ebbe il coraggio di presentarsi, ma trovò l'ispirazione per scrivere Futura, la bimba che verrà. E che oggi c'è, è figlia dell'est e dell'ovest riuniti, e ha anche gli occhi giovani un po' irriverenti di quel dinoccolato teutonico che, al soldo di un'agenzia turistica, si finge soldato americano, dando l'attenti e il riposo ai turisti in coda, per una foto fra le più kitsch del Novecento. No, il check point Charlie meriterebbe più rispetto. Il muro qui è rumore, quando, invece, è stato soprattutto silenzio. Per ascoltarlo, c'è Bernauerstrasse dove un percorso di un km e mezzo ripercorre fino alla stazione Nordbanhof, quello che il muro ha diviso e lasciato. Il muro non c'è più, ma si vede: flucht mit auto, fuggito in auto, ricordano alcune pietre d'inciampo.

«In poche ore, nell'agosto del 1961, la via fu divisa in due, coi parenti che si salutavano da un lato all'altro della strada, non comprendendo che non si sarebbero visti a lungo, o mai più», spiega Mark, volontario al memorial del Muro. Un soldato dell'Est, però, lo capì: Hans Conrad Schumann, prese la rincorsa e saltò il filo spinato. Lo fotografarono, in uno scatto che resta fra le icone del secolo breve. Agli altri non restò che tentare di scappare, magari scavando un tunnel sottoterra, o guardarsi dalle spie che potevano essere anche i vicini di casa e, talvolta, pure morire tentando di «passare». Sono 140 le vittime dei 28 anni di muro, come Udo Duellick che si buttò nella Sprea. «La famiglia ci tiene: affogò, non fu né catturato, né, in fondo, sconfitto». A tutti il memorial di Bernauer riserva una foto, accanto a quella chiesa a forma di lacrima, rinata con un impasto di terra della zona della morte. Oggi a Bernauer si passeggia e ci si fotografa davanti al segmento di muro «vero» lasciato come memento. Il verde di quella wasteland strappata a tutti, fiorita di spighe mai più tagliate, lenisce l'angoscia, ma non fa spuntare il sorriso.

Per tirare il fiato, meglio dirigersi alla East side gallery: nel cuore di Friedrichshein, il muro è quello pop dei murales colorati che sanno di leggerezza e profumano di irriverenza. Sono un centinaio: alcuni sono dei must che vengono restaurati costantemente. Altri sono cambiati negli anni rendendo questa fetta di muro lungo il fiume una enorme lavagna a cielo aperto. Così si fa la fila accanto alla vecchia scalcinata Trabant che sfonda il muro, o ci si bacia con più trasporto davanti al «fatal kiss» fra Leonid Breznev ed Erich Honecker, uscito dai tag e dalla fantasia di Dmitrij Vrubel. Il muro qui è arte che cura la memoria collettiva e aiuta i berlinesi a costruire, quando servono per andare avanti, anche nuovi muri. Come quello appena inaugurato nell'isola dei musei. Lo firma David Chipperfield ed è, in realtà, un cangiante colonnato che stacca rispetto alle rigide forme neoclassiche dei super musei gemelli alte e neue. La maschera di Nefertiti, la porta babilonese di Ishtar, la facciata della biblioteca di Mileto. Tutto scorre come in un enorme «age of empire», in attesa di poter tornare ad ammirare, nella nuova sede non prima del 2025, l'ara di Pergamo, superstar di queste meraviglie.

Benvenuti nella nuova Berlino Est: poco oltre, la porta di Brandeburgo e il celebre viale Unter den Linden, hanno ancora un segreto sotto i tigli: girato l'angolo non un muro, ma tanti muri. Sono quelli del memoriale della Shoah. Alti, bassi, sghembi, il terreno è un saliscendi che dà quasi la nausea.

Ci ritrovi il silenzio, ci si sente come inghiottire, mentre il cielo sopra a Berlino pare scomparire. Poi c'è sempre un bambino che corre, grida e sorride e in mezzo a quelle pareti riesce perfino a giocare a nascondino. Senza un muro, come farebbe? Benvenuta libertà.

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