«Così diedi una speranza a Oriana Fallaci e alla mamma di Eluana»

Oncologo, dal 2000 è chirurgo al Memorial Sloan-Kettering di New York, il più importante centro mondiale per la cura dei tumori: vi furono ricoverati anche Gianni e Giovannino Agnelli e Tiziano Terzani

I suoi specializzandi, fuoriclasse che arrivano negli Stati Uniti da tutto il mondo, lo hanno festeggiato nel giorno del cinquantaquattresimo compleanno facendogli trovare all’uscita della sala operatoria una torta su cui c’era scritto: «Please, do not leave us», per favore, non abbandonarci. Avevano intuito ciò che nel consesso scientifico internazionale è stato chiaro fin dall’inizio: il professor Virgilio Sacchini non è tipo da fermarsi per sempre qui piuttosto che là. Per il semplice motivo che quest’uomo segue la malattia, non l’assegno, e le sue pazienti, una volta prese in carico, non vengono più abbandonate per il resto della loro vita, breve o lunga che sia. Ovunque abitino.
Specialista nei tumori del seno, a New York dal 1989, Sacchini insegna oncologia chirurgica alla Cornell University e dal 2000 lavora al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, in sigla Mskcc, che su 700 medici conta appena due chirurghi d’origine italiana. Qualunque altro suo collega lo considererebbe un punto d’arrivo, la stazione finale d’una eccelsa carriera. Lui no. Ogni cinque o sei settimane torna nel nostro Paese per un paio di giorni a seguire casi vecchi e nuovi e a trovare la madre Angela, che ha 80 anni e vive a Merate, il paese lombardo dov’è nato nel 1956. Fino allo scorso dicembre ha operato all’Ieo di Milano, l’Istituto europeo di oncologica dove si formò alla scuola del professor Umberto Veronesi: «Allora mi appariva come un dio». Oggi si appoggia all’ospedale San Raffaele di don Luigi Maria Verzé: «Un personaggio carismatico».
Lo Sloan-Kettering viene considerato il tribunale mondiale dell’oncologia. Chi può permetterselo vi approda per ascoltare una sentenza definitiva su 55 diversi tipi di neoplasie. Sacchini tratta i tumori mammari in un edificio indipendente di 16 piani, costruito nel 2009 con 100 milioni di dollari donati da Evelyn e Leonard Lauder in ricordo di Estée Lauder, l’imprenditrice dei cosmetici che 18 anni prima aveva finanziato la costruzione della prima palazzina.
Quando l’Mskcc fu fondato, nel 1884, era un lazzaretto: a quell’epoca non si sapeva nulla del cancro. Deve il suo nome ai primi due mecenati che lo sovvenzionarono, Alfred Sloan, presidente della General motors dal 1923 al 1956, e Charles Kettering, inventore nel 1911 del motorino d’avviamento delle auto. Oggi è un’istituzione no profit, con camere da uno o due letti. Un giorno di ricovero costa da 20 dollari per i poveri assistiti dallo Stato a 1.500 dollari per i ricchi che dispongono di suite con servizio alberghiero. Ogni anno vi si eseguono 17.500 interventi chirurgici: due all’ora. È qui che Gianni Agnelli, suo nipote Giovannino e gli scrittori Oriana Fallaci e Tiziano Terzani vennero a cercare le cure migliori contro i tumori che li avevano aggrediti.
La Fallaci venne assistita fino all’ultimo dal professor Sacchini. «La prima volta fu il console italiano a chiedermi di visitarla a domicilio. Non mi disse il nome della paziente. Fuori dall’ospedale trovai ad aspettarmi alcuni funzionari della sicurezza. Durante il viaggio, la grossa berlina ritornava spesso sullo stesso percorso: i miei accompagnatori volevano essere certi che nessuno ci seguisse. Ci fermammo di fronte a un palazzo signorile della Sessantunesima strada. All’ingresso c’era un’auto della polizia. Fui scortato fino a un appartamento del secondo piano. Con Oriana non ci fu bisogno di presentazioni. Mi parlò di sé per quattro ore, accendendosi una sigaretta via l’altra e versando champagne. Negli ultimi 20 minuti si alzò, prese uno scartafaccio di fogli e mi disse: “Dottore, questi sono i miei Promessi Sposi. È la storia della famiglia Fallaci, ci lavoro da otto anni. Lei deve assolutamente aiutarmi. So che sto per morire, ma ho bisogno di almeno altri due anni per finire il libro”». Glieli ha regalati. Due esatti. E quando nel 2008 ha avuto fra le mani Un cappello pieno di ciliege, il romanzo postumo della scrittrice fiorentina, ha mormorato dentro di sé: «Ce l’abbiamo fatta, Oriana».
Anche il professor Sacchini, con l’aiuto di Sergio Perego, un giornalista suo amico, ha appena pubblicato un libro: Dai sempre speranza (Mondadori). Il sottotitolo recita: «I pazienti che hanno cambiato la mia vita». Come? «Mi hanno insegnato a stare più dalla loro parte che dalla mia». Sono 35 storie di vita e talvolta di morte. Non c’è solo la Fallaci. C’è Saturna Minuti, la moglie di Beppino Englaro, che nel 1993, prima di sottoporsi a un intervento demolitivo, lo supplica di applicare il protocollo che le consenta il recupero più veloce possibile: «Voleva essere pronta per assistere la figlia Eluana, in stato vegetativo dall’anno prima dopo un incidente stradale, quando si fosse risvegliata». C’è Valery, alta, bionda, occhi azzurri, fisico da top model, con un angiosarcoma della mammella altamente maligno, che non solo si rifiuta di abortire ma evita anche la chemio per non uccidere il bambino che porta in grembo - «Questa vita è troppo importante, dottore: è la prosecuzione della mia vita» - e muore a 25 anni subito dopo il parto. C’è Francesco Borghese, principe di quella «nobiltà nera» romana abituata da secoli a non fare anticamera neppure alla corte del Papa, che prima di morire per un tumore al polmone trova la forza di scherzare sul suo sangue nient’affatto blu, bensì rosso, identico a quello del vicino di letto che non aveva certo origini aristocratiche: ora sorride in fotografia nello studio di Sacchini e da lì può ancora ammirare lo skyline della Grande Mela. C’è René Syler, il volto più popolare della Cbs nella fascia dalle 7.45 alle 9.30, licenziata dopo l’asportazione del seno perché nulla deve ricordare alle svagate telespettatrici americane che esiste il cancro: «La vedo una volta l’anno. È felicissima. Scrive libri e fa volontariato».
La Fallaci le dava ordini: «Tu mi devi curare come faceva a Firenze il mio vecchio medico condotto».
«Chiedeva che prestassi attenzione alla sua persona, e non solo al tumore che la stava divorando. Era ammalata già da dieci anni. Aveva subìto un primo intervento chirurgico, eseguito dal professor Veronesi. Lamentava forti dolori al petto. Io volevo sottoporla subito a una gastroscopia e a una Tac, ma lei pretese di partire per l’Italia facendosi ordinare solo l’omeprazolo contro il reflusso gastroesofageo e uno sciroppo antitosse. Quando finalmente accettò di farsi curare, era quasi cieca. Uno dei nostri più formidabili radioterapisti, il giapponese Yoshiya Yamada, riuscì a togliere la metastasi che le comprimeva il nervo ottico e questo le consentì di riacquistare in parte la vista e di riprendere il lavoro. Mai, neppure per un attimo, Oriana sperò di guarire. Anche se le piaceva sentirsi invincibile».
E la mamma di Eluana oggi come sta?
«Il marito Beppino mi ha scritto una nobilissima lettera. Purtroppo il male s’è ripresentato e la sua Sati, è così che chiama la moglie, ha dovuto essere rioperata due volte, nel 2002 all’altro seno e nel 2005 alla seconda vertebra cervicale. Da allora è in coma, “in condizioni peggiori di Eluana”, mi ha spiegato il marito. Quasi che avesse voluto assumere su di sé la tragica situazione in cui versò sua figlia per 17 anni».
«Dai sempre speranza» dovrebbe essere un imperativo categorico per un medico. C’è qualche suo collega che non ne dà?
«Sì, molti, soprattutto in Italia, soprattutto oncologi. Sbattono la verità in faccia al malato e un quarto d’ora dopo lo lasciano solo, chiudendosi la porta dello studio alle spalle. Non bisogna illudere. Ma la speranza di farcela non deve mai venir meno».
Come mi confessò il chirurgo Vittorio Staudacher, ormai novantenne, il malato vuol sentirsi dire solo una cosa: che se la caverà.
«Sono d’accordo. A Luisa avevano dato sei mesi di vita per un melanoma, lo stesso male che aveva ucciso la madre. Dopo tre interventi, le scoprii i noduli metastatici. Non volle sottoporsi alla chemioterapia. Pretese invece che le iniettassi estratto di vischio, la pianta degli auguri di Natale. Non ho mai avuto preclusioni verso le terapie non convenzionali, purché siano ragionevoli e non dettate da speculazioni. Sono passati 23 anni. Adesso è una bella signora che vive a Roma, madre di due figli. Viaggia molto per lavoro. Ogni tanto mi telefona, l’ultima volta lo ha fatto da Tokyo. E ogni volta finisce la conversazione con lo stesso saluto: “Always give hope, dai sempre speranza ai tuoi pazienti”».
Ma per dare speranza sono necessarie piccole o grandi bugie. Lei ne ha mai dette?
«Sì, ne ho dette. Il tumore sta rispondendo, annunciavo. Invece sapevo che progrediva. Ho mentito a Lucy, malata di mastite carcinomatosa. La vedevo piangere col padre, che mi ricordava tanto il mio, e non avevo il coraggio di riferirle la verità. Se n’è andata a 39 anni. Il papà ne ha 82, è venuto a trovarmi qualche tempo dopo il funerale per ringraziarmi: “Lei è stato l’unico a dare un po’ di serenità a mia figlia. Quando usciva dal suo ambulatorio era felice”».
Oltre che nella mano del chirurgo, molte sue pazienti confidano in quella di Dio.
«È così. Cindy vive a Buffalo. Per decenni è stata hostess sugli aerei di linea. Ogni anno, il 13 giugno, festa di Sant’Antonio da Padova, vola in Italia e va in pellegrinaggio sulla tomba del taumaturgo. “Se gli esami che lei mi prescrive saranno negativi, dovrò ringraziare Sant’Antonio”, mi confidò. La biopsia accertò che i noduli al seno erano benigni. Anche per Joan, una signora che vive nel Michigan, la diagnosi si rivelò tranquillizzante. “Le dovrò fare un regalo, dottore”. Pensai a una cravatta. La visita successiva arrivò accompagnata dal figlio, un ragazzone di 27 anni: “Martin è entrato in seminario per diventare sacerdote cattolico”. Era quello il regalo».
Chi crede ha più probabilità di guarire?
«Indipendentemente dalla fede professata, credere fa bene. Lo attesta uno studio inglese. Robin, nome di fantasia di una docente universitaria di psicologia, massima esperta mondiale nella terapia dei traumi da campo di concentramento, ha voluto affidarsi al mio bisturi perché mi ha spiegato che Sacchini in ebraico significa “il mio coltello”».
E lei a chi si affida quando con le sue sole forze non ce la fa?
«Non ho una corazza da poter indossare. Spesso il sabato mattina entro nella cattedrale di San Patrizio, sulla Quinta strada, e davanti all’altare della Madonna nera di Czestochowa accendo una candela per qualche mia paziente che ne ha bisogno».
Qual è la percentuale di malati che riesce a salvare?
«Nel tumore al seno 65 pazienti su 100 sono ancora vive dopo dieci anni. Anche se capisco le ragioni di chi sostiene che di cancro non si guarisce mai. In effetti per alcune neoplasie la speranza è solo di riuscire a cronicizzarle».
Nel suo libro sono narrate tante sconfitte. Giulio, marito di Elisabetta, morta a 45 anni, rimasto solo con quattro figli, glielo rinfaccia: «Perché continuate a dire che di cancro si può guarire?».
«Perché il cancro è un business e i medici cercano di vendere scoperte che tali non sono soltanto per farsi pubblicità. Dovremmo essere più obiettivi. Non si può affermare, per esempio, che il 98% delle pazienti colpite da tumore al seno guarisce, quando sappiamo che su 32.000 donne che si ammalano in Italia 11.000 moriranno».
Che differenze ci sono fra la sanità statunitense e quella italiana?
«Profondissime. Il medico americano agisce per procedure standard, codificate. Noi italiani siamo più umanisti, guardiamo il malato nella sua globalità. Però negli Usa chi sbaglia paga. Al mio arrivo allo Sloan-Kettering per tre mesi non mi hanno lasciato operare, ho dovuto solo guardare».
E che cosa ha visto?
«Ho visto un famoso neurologo licenziato in tronco solo perché aveva avviato una relazione con la sua segretaria. Erano entrambi single, ma è stato giudicato un conflitto d’interessi. Ancor oggi io non posso entrare in sala operatoria se col pennarello indelebile non ho messo la mia sigla, V.S., sulla mammella da operare. Non una semplice ics, perché potrebbe essere interpretata erroneamente come la mammella da escludere».
Non si potrebbe fare anche da noi?
«È il mio cruccio. In Italia sono circa 30.000 le persone che muoiono ogni anno negli ospedali per errori, negligenza, insufficiente preparazione del personale sanitario. Parliamo del 2,5% di tutti i decessi».
Non prova rimorso per aver sottratto la sua abilità professionale al nostro Paese?
«Avrei guadagnato di più restando in Italia. Quando leggo che un istituto lombardo per la cura dei tumori paga stipendi superiori al milione di euro... Negli Usa sarebbe contro ogni etica capitalistica. All’Mskcc accettiamo anche chi ha solo il Medicaid, l’assicurazione sociale istituita per i meno abbienti. Se discriminassimo fra la casalinga nera che vive ad Harlem e la miliardaria bianca che abita sulla Park avenue perderemmo qualsiasi tipo di finanziamento, ci chiuderebbero l’ospedale».
Presumo che la precedenza vada alla seconda.
«No, viene ricoverata la paziente che ha telefonato o s’è prenotata per prima. Capita poi che le due donne finiscano nella stessa camera e per un medico è una soddisfazione immensa vederle socializzare. Il vero comunismo l’ha realizzato l’America nella sanità. I meno garantiti siamo noi medici. Ogni due anni il contratto scade e ci può essere rinnovato oppure no. Idem alla Cornell University».
In compenso lei scrive che tra gli americani si sta diffondendo la pretesa di vedersi garantire la vita stessa.
«Sì, è uno stato d’animo molto diffuso. Qualche giorno fa parlavo con un cardiologo che è stato obbligato a mettere uno stent coronarico a un paziente di 101 anni, malato di Alzheimer, il quale non era nemmeno in grado di capire. Si pensa che la medicina possa rendere immortali. Non è così.

Eppure i primi a coltivare questo senso di onnipotenza sono proprio illustri medici, ormai vicini ai 90, che stanno programmando la loro attività per i prossimi dieci anni. Dà da pensare».
(540. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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