Cronache

«Così hanno ucciso mio padre»

Maria Vittoria Cascino

Quei fogli li estrae a memoria dal fascicolo che potrebbe citare virgola dopo virgola. Senza esitazione, senza stanchezza, all'infinito. Chiedi a Carlo Pocci se ha ancora la forza di parlare di Borghetto di Vara, di suo padre ammazzato, di trent'anni di ricerche affannose e impantanate, di giudici e di processi. Di bocche che il tempo non ha schiuso, o ha schiuso a tratti. Di qualcuno che l'inchiesta l'ha condotta come fosse ieri e ha registrato quello che è successo lì. Che ha riagguantato altre storie terribili a margine di un filone centrale d'inchiesta. Perché a monte ci sono due denunce di Carlo contro ignoti per l'assassinio del padre Giuseppe nell'aprile del '45. Una al Tribunale Militare (che si dice incompetente), l'altra al Civile della Spezia, finché quello di Genova avoca a sé la pratica e avvia l'inchiesta sull'eccidio di Borghetto.
«Capitò per caso - racconta Pocci - Ero all'Istituto della Resistenza della Spezia, quando mi capitò fra le mani un foglietto manoscritto e non firmato in cui si indicavano i nomi dei militi della Guardia nazionale repubblicana fucilati alle 13 del 15 aprile 1945 e uno era mio padre. Trovai chi lo aveva compilato, ma non ne cavai nulla. Decisi così di portarlo in Tribunale». Bisogna ricostruire i fatti di Borghetto e se ne occupa l'ispettore della Polizia Giudiziaria Michele Schembri. Lavora di fino l'ispettore e raccoglie di tutto. Perché l'obiettivo è sì capire le dinamiche e individuare le responsabilità dell'eccidio del presidio Gnr, ma va sondato anche l'antefatto. Giuseppe finì al presidio i primi di aprile del '45, dove fu fatto prigioniero e assassinato, insieme ad altri 21 commilitoni, dai partigiani che assalirono la casermetta.
«Fu don Ravini, parroco di Torpiana a darmi uno stralcio del diario di quei giorni. Quando i partigiani portano i prigionieri a Torpiana, alla Tana du Cadin du Mazendà, una sorta di foiba. Gli sparano e i corpi finiscono dentro. Un lavoro pulito. Ma uno scappa buttandosi in un dirupo, loro lo inseguono e lo finiscono sotterrandolo malamente. Nella tana restano in undici, ma due sono feriti e nella notte riescono a tirarsi fuori».
Pocci allarga i fogli sul tavolo: «Schembri registra storie di contorno che ben danno l'idea del clima in cui è maturato l'eccidio. Come quella di Giovanni Bucci, mulattiere e carbonaio con moglie e quattro figli. Nell'agosto del '44 era a Serò nell'osteria. Scopre d'essere ricercato dai partigiani come spia fascista. Viene catturato, legato per i piedi a testa in giù ad un albero e bruciato vivo. Si viene poi a sapere che Bucci collaborava con i partigiani trasportando farina e utilizzando una mula. Dato che era poverissimo durante un trasporto ne preleva una quantità modesta e pare l'abbiano ammazzato per questo». Pocci legge la vicenda paradossale di Giacomo Angiolini, reduce di Russia, arruolatosi nel marzo del '45 nella Gnr per bisogno e destinato a Borghetto. «Viene processato a Serò e condannato a morte: il movente sembra la gelosia. Il milite aveva una relazione con una donna di Brugnato. Cosa che dispiaceva a qualcuno. Lo confermano ex partigiani e la donna stessa. Viene formata una squadra di 15 volontari che dopo avere scavato la fossa, lo fucilano e lo denudano. I familiari dopo la guerra vanno sul luogo dell'esecuzione per cercarne i resti. Vengono presi a sassate e minacciati. Solo in un secondo tempo riusciranno a recuperare il corpo». Si parla anche del Maggiore Zini della Gnr, «prelevato alla Spezia dalla sua abitazione, portato a Pieve di Zignago e fucilato. La moglie e la figlia andarono a Serò per conoscerne la sorte e chiederne la liberazione. Per questo dovettero concedersi ai partigiani per diversi giorni, quando Zini era già morto».
Pocci si ferma e toglie occhiali. I fogli sono decine, poi prende quello dell'attacco al presidio,il 12 aprile: «L'unica vittima è il maresciallo Tassi, mentre il tenente Andreef viene ferito ad una gamba. Chiede d'essere soccorso, “ora ti curo io”, gli grida l'uomo che lo finisce con una sventagliata di mitra. Detto da ex partigiani». Poi si avvicina a quella verità cercata per trent'anni. Perché dei due fuggiti dalla tana, uno, «Leonardo Usai, viene catturato e riconsegnato ai suoi giustizieri che gli spappolano il cranio. L'altro, più grave, rimasto vicino alla tana era mio padre». Sul foglio legge: «Dopo averlo ucciso lo denudano e nelle calze trovano 500 lire». Un partigiano dice alla moglie «Questi ce li beviamo».
Adesso gli occhiali li mette via. È arrabbiato perché il processo è stato archiviato, «perché i reati sono in prescrizioni» gli hanno detto.

Ecco perché questa storia è disposto a raccontarla all'infinito.

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