«Così ho scoperto il Nobel Naipaul»

Diana Athill, guru dell’editoria inglese, racconta l’incontro con un giovane autore di delicati racconti

Si suppone che un buon editore debba «scoprire» scrittori e forse è così che accade di solito. Di certo, comunque, a me accadde. Nel 1956, quattro anni dopo la nascita della casa editrice André Deutsch, di cui sono stata direttore, Mordecai Richler (di cui avevamo appena pubblicato il primo romanzo) mi fece conoscere Andrew Salkey. Andrew era uno scrittore giamaicano che si guadagnava da vivere lavorando per il service caraibico della BBC e si dimostrava sempre generoso nei confronti degli altri scrittori. Quando seppe che ero l’editor di Mordecai, chiese se mi poteva mandare un giovane amico che collaborava come freelance per lo stesso service e che aveva appena scritto qualcosa di molto buono. Qualche giorno dopo, V. S. Naipaul mi raggiunse al caffè vicino al nostro ufficio, portando con sé Miguel Street.
Aveva poco più di vent’anni e sembrava anche più giovane, ma i suoi modi erano austeri - per non dire gravi - e non sorrideva mai. Attribuii la cosa al nervosismo, ma al tempo stesso compresi che si trattava del nervosismo di qualcuno che nella sostanza era serio e composto e che sarebbe stato irriverente pensare di poterlo «mettere a suo agio». Perciò fu una sorpresa scoprire che Miguel Street era divertente: delicatamente divertente, senza eccessi. Era una raccolta di racconti, ciascuno dei quali costruito su un personaggio diverso, che nell’insieme tracciavano il ritratto di una strada della capitale di Trinidad, Port of Spain. Il linguaggio era quello della strada e l’equilibrio tra divertimento e leggerezza era perfetto. Ero deliziata, ma anche preoccupata: uno degli assiomi editoriali cui André Deutsch si atteneva rigorosamente era non pubblicare mai racconti di scrittori esordienti. (...) Per fortuna, Vidia stava già scrivendo un romanzo, The Mystic Masseur.
In quella fase non sapevo come né perché avesse rifiutato Trinidad e anche l’avessi saputo, non avrei potuto comprendere che cosa significasse essere incapaci di accettare il paese in cui si è nati. I libri di Vidia (primo fra tutti Una via nel mondo, che però scrisse solo 37 anni più tardi) avrebbero fatto molto per educarmi, ma a quei tempi non potevo concepire come qualcuno che sente di non appartenere alla sua «casa» e non riesce ad appartenere a nessun altro luogo sia costretto ad esistere soltanto dentro se stesso. E men che meno come una tale condizione (che i giovani e gli ignoranti con superficialità considerano desiderabile) possa rivelarsi di una precarietà sfibrante. L’io di Vidia - la sua essenza umana - era la sua scrittura: un grande dono, ma anche l’unica cosa che avesse. Dieci anni più tardi, dopo essersi guadagnato un’evidente sicurezza economica e artistica, si trovò a confessare di essere ancora tormentato dall’ansia quando cercava il nuovo soggetto per il suo libro, e poi per quello successivo... un’ansia che non riguardava soltanto il come guadagnarsi da vivere, ma la sua stessa esistenza come persona. (...)
Questo non significa che non mi accorgessi dell’evidente fragilità del suo equilibrio nervoso. Mi preoccupava soprattutto che fosse sempre a corto di denaro e rimasi sconcertata dal suo comportamento quando lo vidi rischiare di perdere l’assegnazione di un pezzo sfidando il Times Literary Supplement. Gli avevano offerto la solita tariffa di 25 sterline (o erano ghinee?) per una recensione e lui aveva replicato seccamente che non avrebbe scritto nulla per meno di cinquanta. «Oh, sciocco Vidia», pensai. «Ora non gli offriranno mai più nulla». E invece! Ottenne i cinquanta e io lo ammirai tantissimo. Aveva ragione da vendere: gli autori devono essere consapevoli del proprio valore e rifiutare l’insulto di cifre che li deridano. (...)
La madre di Vidia, una bella donna, di aspetto benigno e matronale, fu molto cortese nell’accogliere i suoi editori quando visitarono Trinidad e diede l'impressione di costituire il fulcro amatissimo della famiglia. Una delle figlie sposate mi disse che la signora Naipaul «si divideva tra il tempio e la cava» - quest’ultima era un’attività del suo ramo familiare di cui lei condivideva una quota. Che non fosse semplicemente una confortante figura materna mi divenne tuttavia chiaro quando lei stessa mi raccontò che era appena tornata a casa dopo aver frequentato un corso sulla saldatura e che era lieta di non esserselo perso perché aveva imparato tanto da poter ridurre il numero di operai della cava della metà. Dopo aver notato la mia sorpresa quando era apparsa indifferente ad alcune novità che riguardavano Vidia, gettò altra luce sul suo personaggio con un bel discorsetto.
Era stata, mi disse, una ragazza Hindu di buona famiglia, bene educata secondo la sua generazione, che significava non aver ricevuto altra educazione che quella di obbedire in tutto ai suoi genitori. E lei lo aveva fatto. Poi si era sposata («E d’amore in quegli anni non se ne parlava»), e questo aveva voluto dire obbedire al marito in tutto. Cosa che lei aveva fatto. Poi aveva avuto dei bambini, il che voleva dire che il suo lavoro sarebbe stato dedicarsi a loro e crescerli il meglio possibile. E lei, puntualmente, lo aveva fatto («E posso dire di aver fatto un ottimo lavoro»). «Ma poi, quando ho compiuto 50 anni mi sono detta: FINE. Devo iniziare a vivere per me stessa. E questo è quello che sto facendo: loro vadano avanti con le loro vite».
Era certo uno schizzo autobiografico di grande effetto, ma aveva lasciato in me alcune domande in sospeso. Avevo letto, dopo tutto, Una casa per Mr Biswas, il romanzo che Vidia aveva basato sulla vita di suo padre e che aveva dipinto un quadro vivido di quanto Mr Biswas fosse stato umiliato durante il suo matrimonio dalla più ricca e influente famiglia Tulsi della sposa - sebbene non sapessi ancora allora che Seepersad Naipaul, il padre di Vidia, aveva avuto un collasso nervoso ed era scomparso da casa per mesi. Chiaramente quella donna attraente e - cominciavo a pensare - davvero formidabile la stava facendo facile con il racconto della sua vita. Ma, come dissi a Vidia quando mi chiese di lei poco dopo averla conosciuta «Mi è molto piaciuta». Al che lui replicò: «Sembra che piaccia a tutti. Io la odio». (...)
Sapevo che amava profondamente suo padre, e aveva scritto un’introduzione commovente ai suoi racconti, che ci diede da pubblicare nel 1976, e parlava spesso del modo in cui lo aveva introdotto alla lettura. Seepersad Naipaul possedeva un senso per la scrittura così forte e genuino da farlo appassionare ai classici inglesi e portarlo a collaborare al giornale locale... la lezione più importante che diede a suo figlio fu «Scrivi di ciò che conosci», guarendolo dal morbo della giovane letteratura coloniale forzatamente esotica, e anche di un altro consiglio: quando Vidia gli mostrò uno scritto che riteneva comico, lui lo esortò a non calcare la mano sulla commedia ma a lasciarla sorgere con naturalezza dal racconto. È triste pensare a quest’uomo azzoppato dalle «circostanze» della vita, le stesse narrate in Una casa per Mr Biswas, e morto prima di poter vedere suo figlio volare alto. La madre era parte di quelle «circostanze» e il figlio si alleò col padre contro di lei, di questo sono certa.(...)
Non ricordo quanto tempo passò - molti mesi, forse addirittura un anno - prima che venissi a sapere che Vidia era un uomo sposato. «Ho trovato un nuovo appartamento», diceva. «Ho visto questo o quest’altro film, la scorsa settimana». «La mia padrona di casa dice»: non usava mai le parole «noi» o «nostro». Davo per scontato che vivesse in una industriosa solitudine e mi era parsa una cosa triste. Sicché quando ad un party lo intravidi in fondo ad una stanza insieme a una giovane donna - carina, ma anonima, per nulla appariscente - con la quale poco dopo andò via, fui lieta che avesse trovato una fidanzata. Così quando lo incontrai in ufficio la volta successiva gli chiesi chi fosse lei e rimasi stupefatta quando rispose, con tono leggermente contrariato, «Mia moglie, naturalmente».
Dopo di che, a Pat (Patricia Hale, la prima moglie, ndr) fu concesso di uscire dall’ombra, anche se di poco, e un giorno mi disse qualcosa che mi scioccò a tal punto che compresi subito l’avrei ricordata sempre, parola per parola.

Dopo che le avevo fatto notare che non ci eravamo mai incontrate prima, Pat mi disse: «Vidia non gradisce che io venga alle feste, perché sono noiosa».
Da quel momento in poi, ogni volta che volevo tirarmi un po’ su il morale elencandomi le mie fortune, usavo ripetermi: «Almeno, non sono sposata con Vidia».
(Copyright 2005 Granta Publications. Traduzione
di )

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