Così i «miglioristi» peggiorarono la storia del Pci

Chi ripercorra la storia del Pci dal secondo dopoguerra al ’91 (quando la maggioranza si trasformò in Pds), si imbatte in una strana e inquietante entità, in una sorta di fantasma: la «destra comunista», i cui esponenti verranno anche chiamati «miglioristi» (ovvero riformisti, non rivoluzionari). Erano un gruppo di dirigenti di primissimo piano (Giorgio Amendola, Bufalini, Chiaromonte, Lama, Napolitano, Macaluso, ecc.), i quali, pur avendo fortissime riserve sulla politica di Togliatti, e poi di Longo, Berlinguer, Natta e Occhetto, e pur riconoscendosi assai più nelle socialdemocrazie europee che nel leninismo, non diedero mai battaglia nel partito in modo chiaro e deciso, non espressero mai una ferma opposizione, bensì finirono sempre con l’adeguarsi alla linea ufficiale espressa dal segretario in carica.
Certo, i «miglioristi» dissentivano, ma in modo felpato e con formule criptiche, non comprensibili alla «base»; pronunciavano interventi nei congressi e nei comitati centrali, pieni di riserve, di distinguo, di perplessità, talvolta di accorata amarezza; ma poi, dopo aver ottenuto dal segretario del partito l’inserimento di una o due paroline che evocassero anche vagamente la loro posizione nella mozione finale scritta dal segretario medesimo, si allineavano. Perché tanta timidezza e tanto spirito di accomodamento? La risposta è nel libro di Enrico Morando (che fu esponente di spicco dei «miglioristi»), Riformisti e comunisti? Dal Pci al Pd. I «miglioristi» nella politica italiana (Donzelli, pagg. 151, euro 17): perché i «miglioristi» si sentivano parte integrante di un fiume maestoso - il Partito comunista - il quale in Italia era, a loro avviso, la garanzia di ogni progresso. Naturalmente potevano credere a una cosa simile perché la loro vocazione socialdemocratica era mescolata a una serie di convinzioni che andavano esattamente nella direzione opposta.
Esemplare, in questo senso, la figura del loro caposcuola, Giorgio Amendola: nel ’56 criticò Togliatti perché questi non faceva i conti con i problemi aperti dal «rapporto segreto» di Krusciov sui crimini di Stalin e sulla natura poliziesca e terroristica del potere sovietico; ma poi, nel ’79, fu il più convinto sostenitore e difensore dell’intervento dell’Urss in Afghanistan. Esemplare anche la posizione politica espressa da Napolitano, da Macaluso e dai loro amici all’interno del Pci. Costoro condividevano poco o nulla della linea di Berlinguer (a parte lo «strappo» dall’Urss); essi non credevano affatto nella «terza via» teorizzata dal segretario, una via capace di andare al di là sia del capitalismo sia della socialdemocrazia; essi si riconoscevano piuttosto in una via riformista di ispirazione socialista, e individuavano nel Psi di Craxi un interlocutore privilegiato, con cui intensificare il dialogo. Difficile immaginare una posizione più antitetica a quella di Berlinguer, che in Craxi e nel craxismo vedeva solo degenerazione e corruzione, nonché un pericolo mortale per il Pci.
Le due linee - di Berlinguer e dei «miglioristi» - avrebbero dovuto confliggere aspramente, in modo irrimediabile, se i «miglioristi» fossero stati coerenti. Ma loro limavano, smussavano, sfumavano, edulcoravano, e l’unità del Partito era salva! Naturalmente, la situazione italiana restava quella di prima: una democrazia bloccata, priva di alternanza, perché la presenza stessa di un forte partito comunista la bloccava; un consociativismo ora aperto ora strisciante, ovvero una ricerca continua, da parte dei comunisti, di una collaborazione sotto banco con la Dc; una corruttela generalizzata nella pubblica amministrazione. I «miglioristi» lo sapevano e ne soffrivano, ma anche ne gioivano, perché il loro partito restava saldo e maestoso. Crollato il comunismo, avrebbero dovuto vivere la loro grande stagione, invece furono messi nel sacco, e financo umiliati, persino da Occhetto! In un libro autobiografico di Emanuele Macaluso, 50 anni nel Pci (Rubbettino, 2003), il giornalista Paolo Franchi, ex-«migliorista», in un intervento pubblicato in appendice al libro, muoveva quest’obiezione all’Autore: «siamo responsabili (soprattutto chi nella vecchia casa è rimasto e alla fine si è impossessato delle sue macerie) di essere stati, per opportunismo, troppo continuisti.

Di non aver mai dato battaglia aperta, con tutti i rischi del caso, per le nostre idee, e anche, perché no, per prendere il potere. Di non aver mai detto che comunisti, seppure nella versione italocomunista, non lo eravamo più». Parole sante, con buona pace di Macaluso.

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