Così l’arte contemporanea ha dimenticato realtà e bellezza

In ogni tempo e in ogni luogo l’arte ha testimoniato il sentimento dell’uomo su questa terra, ha raccontato ciò in cui crede, le sue speranze, le sue paure. L’arte è sempre stata una grande comunicazione simbolica di valori e di significati in cui si è riconosciuta una comunità che, grazie alla propria creatività artistica, ha potuto trasmettere \ un’idea di mondo, di verità, di bellezza.
Agli inizi del ’900 la rottura con questa concezione millenaria del principio estetico è radicale. Con lo sviluppo delle grandi avanguardie, gli artisti dimostrano la piena consapevolezza che il loro lavoro non è più testimone di una verità \. La conoscenza moderna è, nel suo fondamento, scientifica, non estetica, l’educazione è scientifica, non estetica, e questo dislocamento comporta un mutamento decisivo nella formazione dell’uomo. Ciò comporta una rigida chiusura dell’artista nel suo mondo soggettivo, una sperimentazione di forme che non aprono ad alcuna comunicazione. L’artista (il letterato, il musicista), dagli inizi del XX secolo ha progressivamente adottato i modelli comunicativi che provenivano dai linguaggi della scienza e della tecnica, pensando, così, di non soccombere alla loro potenza; ha abbandonato la simbolicità e la miticità espressiva per diventare, anch’egli, «sperimentale». In questa chiusura nel soggettivo, l’artista rinuncia alla comunicazione di senso, alla sfida sul valore della rappresentazione, alla testimonianza della trascendenza.
Vorrei \ spiegarmi commentando un fatto di cronaca. Sembra una di quelle polemiche destinate a lasciare il tempo che trova, e invece illustra chiaramente il nostro problema, cioè l’esasperazione soggettivistica dell’arte contemporanea.
La polemica è tra Gerhard Richter, 75 anni, artista tra i maggiori del mondo, originario di Dresda, e Joachim Meisner, 75 anni anche lui, cardinale di Köln, in Germania, originario di Breslau, oggi la polacca Wroclaw. A dividerli c’è un vetrata, opera di Richter, installata su una navata della cattedrale gotica di Köln, parzialmente distrutta durante la guerra. All’inaugurazione, ostentatamente non ha partecipato il cardinale Meisner, il quale, per esprimere tutto il suo disappunto per il lavoro di Richter, ha dichiarato al quotidiano Express: «Quella vetrata me la posso immaginare in una moschea». La vetrata è composta da 11mila frammenti di cristallo colorato, la cui disposizione è stata lasciata al caso. L’artista è intervenuto soltanto quando l’unione dei cristalli poteva suggerire un’immagine riconoscibile. Dunque, un’opera assolutamente astratta. E qui s’innesta la polemica del cardinale: un tempio celebre come il duomo, egli osserva, non può avere un vetrata priva di qualsiasi immagine di culto, di qualsiasi raffigurazione divina, come se l’artista fosse stato condizionato dalla religione islamica in cui, come si sa, vige il divieto dell’immagine. Il cardinale Meisner avrebbe voluto la rappresentazione del martirio di Edith Stein, ebrea di Breslau, convertita al cattolicesimo e ordinata monaca a Köln, e poi deportata e morta ad Auschwitz.


La questione è che Gerhard Richter non aveva nessuna intenzione di fare un’opera gradita all’Islam: piuttosto è la rappresentazione figurativa del sacro che, proprio lui artista figurativo fin dagli anni Sessanta, non era in grado di risolvere artisticamente.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica