In Liguria come altrove, le leggi razziali del 1938 lasciarono la maggior parte degli italiani piuttosto indifferenti. Eppure provocarono centinaia di migliaia di vittime. Intere famiglie di religione ebraica vennero divise, le loro esistenze distrutte, la loro dignità completamente annientata. E furono in tanti, troppi, a finire nei vagoni bestiame con destinazione finale i campi di concentramento nazisti.
A far rivivere la drammaticità di quei giorni è Gualtiero Morpurgo, giornalista e scrittore, anconetano di nascita ma genovese di adozione, che nel libro «La busta gialla», collana Libri per non dimenticare di Mursia Editore, rievoca gli anni in cui, allora giovane ingegnere, viveva e lavorava a Genova.
La strada che il destino ha riservato a Morpurgo era ben diversa da quella che, da giovane laureato, si era immaginato. Infatti, per non finire nella rete che la polizia fascista aveva teso per far piacere all'alleato tedesco, fu costretto a muoversi in continuazione e dal 1943 al 1945 riuscì a fuggire in Svizzera, salvandosi dalla persecuzione. Successivamente, ritornato in Italia, collaborò alle operazioni clandestine per l'emigrazione dei superstiti dei campi di sterminio verso la Palestina. E fu questa la ragione per cui nel 1992 Rabin gli conferì la Medaglia di Gerusalemme. A quel punto, dell'ingegnere di una volta non era rimasto più nulla. Intraprese la carriera giornalistica e alla fine divenne direttore dell'Ufficio Ansa di Santiago del Cile.
Tornando a «La busta gialla», il saggio di Morpurgo, raccontato con la scorrevolezza di un romanzo, inizia proprio con l'arrivo di una lettera: «La busta gialla è sul tavolo, - scrive - e non ho il coraggio di aprirla. È arrivata raccomandata, e le raccomandate non portano mai buone notizie. Poi, ha l'aria minacciosa e il timbro del mittente Distretto Militare, non promette niente di buono, anche se siamo in tempo di pace».
Da questo momento in poi il racconto si sviluppa, descrivendo come l'esistenza di un giovane italiano viene sistematicamente distrutta soltanto perché è di religione ebraica. Aveva 25 anni, Morpurgo, quel giorno del 1938. Appena laureato in ingegneria, era andato sotto le armi per il periodo di leva. Sottotenente di artiglieria, svolgeva con impegno il servizio militare e, ammette, non si rendeva esattamente conto di quanto stava accadendo in Europa. Aveva sentito che in Germania gli ebrei erano perseguitati e che, chi poteva, era già fuggito via cercando riparo in Svizzera o negli Stati Uniti, ma non pensava che provvedimenti simili sarebbero mai stati adottati in Italia. «È noto - scrive - che l'ascesa di Mussolini al potere nel 1922 è stata appoggiata anche da una borghesia ebraica che lo riteneva capace di riportare l'ordine in un Paese stremato da una guerra recente e da violente crisi interne. Ma dopo qualche anno, a causa del delitto Matteotti e delle leggi restrittive della libertà di stampa emanate nel 1925, che annunciavano chiaramente un pesante regime dittatoriale, la maggioranza degli ebrei si è ritirata su una posizione apolitica».
Ma ormai era troppo tardi per capire quali sarebbero state le conseguenze di quel regime. Come spiega lo stesso Morpurgo, Mussolini non aveva nulla di personale contro gli ebrei. Laico com'era, si interessava di religione solo per fini politici. Ne sono una prova i Patti Lateranensi del 1929 e le leggi razziali del 1938. Con i primi voleva tenersi buoni i cattolici, con le seconde voleva prenotarsi un posto a tavola nel banchetto finale di quella che allora riteneva la «breve guerra tedesca». Ma si era fatto male i conti, come poi si è visto.
Morpurgo cominciò ad aprire gli occhi su quanto stava avvenendo in Italia quando, quella mattina del 1938, aprì la busta gialla. «Con fredde parole - racconta - si comunica che sono espulso dal Regio Esercito Italiano con un forzato congedo assoluto in osservanza delle leggi razziali firmate e ratificate da Vittorio Emanuele III, Re d'Italia e Imperatore d'Etiopia».
Da quel momento la sua vita venne sconvolta. Mentre eminenti professori universitari, per ingraziarsi il regime, pubblicano il «Manifesto della razza» contro gli ebrei, la sua famiglia viene subito messa sotto controllo: niente più donna di servizio, la radio confiscata, lo zio professore di liceo non può più insegnare. Fortunatamente non viene cacciato dai cantieri navali di Sestri Ponente, dove lavora come ingegnere, perché l'allora proprietario Rocco Piaggio, a suo modo antifascista, se ne infischiava delle leggi razziali. Per cui, facendo mantenere un profilo basso all'ingegnere ebreo che aveva voluto assumere, se lo tenne in cantiere fino a quando una lettera del ministero del Fabbriguerra, firmata dallo stesso ministro, generale Favagrossa, non gli impose di mettere fine alla «clandestina collaborazione» con il giovane ingegnere ebreo.
Morpurgo non si dimentica di raccontare di come gli italiani venivano indottrinati contro i loro stessi concittadini di religione ebraica. E parla delle velenose trasmissioni radiofoniche di Mario Appelius, delle falsità di Telesio Interlandi sul periodico «Difesa della Razza» e persino delle filippiche di padre Agostino Gemelli che da Roma continuava ad inveire contro i «perfidi ebrei» e il «popolo deicida».
Per chi vuole leggere uno spaccato di vergognosa vita italiana anteguerra, questo libro è altamente raccomandabile.
«La busta gialla» di Gualtiero Morpurgo, Mursia Editore (Libri per non dimenticare), 99 pagine, 9 Euro.
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