«Così a Milano rivoluzionai l’editoria»

«I libri? Sono stati una scelta ma anche un destino. E, al più alto grado, un privilegio». Giovanni Fabbri, il Re Mida della carta stampata e dei libri a dispense, compie 90 anni, e per festeggiare l’evento (il prossimo 26 aprile) ha accettato di ripercorrere con il Giornale la sua lunga e straordinaria avventura imprenditoriale, iniziata in via Cerva a Milano nel primo dopoguerra. Creativo, ambizioso e indomabile avanguardista, nel 1946 fondò insieme ai fratelli Dino e Rino la Fratelli Fabbri Editori (oggi nel gruppo Rcs), passata alla storia come una delle più importanti case editrici per testi scolastici e divulgativi, oltre che la prima a diffondere sul mercato italiano i prodotti multimediali. «Il mio difetto? Non avere il senso della misura», racconta. Che tradotto significa: voler essere sempre il migliore. A scuola («fui l’unico, alla maturità, a tradurre la versione di greco in lingua latina»), così come sul lavoro e nella vita. Per primo, alla fine degli anni ’40, pubblicò in Italia i testi a colori per le elementari (conquistando il 40 per cento dei libri scolastici), introdusse l’enciclopedia a dispense (600 milioni di fascicoli venduti in tutto il mondo, tradotti persino in turco, indi, urdu, afrikaans) e realizzò, con il fratello Dino, quel grande capolavoro di divulgazione dell’arte pittorica chiamato I maestri del colore.
E pensare che avrebbe dovuto fare il medico.
«Lo scienziato, per la verità. Questo almeno era il mio sogno dopo la laurea in Medicina. Ma i miei esperimenti, come quello di trapiantare un lembo di pelle da un individuo all’altro (allora non si sapeva nulla del rigetto) o di cercare nel sistema immunitario la strada per sconfiggere i tumori (tesi comprovata sessant’anni dopo) non furono ben accolti dal centro universitario. Così, un po’ per delusione, un po’ per ragioni economiche, mi concentrai sulla mia seconda passione: i libri».
Come nacque l’idea delle dispense?
«Io e i miei fratelli avevamo pubblicato, con imprevisto successo, nuovi testi a colori per le scuole. Ma mi accorsi che gli alunni si entusiasmano quando il libro è fresco di stampa, mentre lo aprono di malavoglia non appena si sgualcisce. Così ebbi un’idea: perché non farli a dispense e offrir loro qualcosa di nuovo ogni settimana? Ma il ministero dell’Istruzione non me lo consentì, quindi scelsi la strada delle edicole».
E pubblicò l’enciclopedia «Conoscere».
«La mia creatura prediletta. Ne piazzai 600 milioni di fascicoli: il suo successo premiò i due anni di lavoro che spesi per pianificarla pagina per pagina, e i quattro anni necessari per controllare ogni parola prima della stampa. Un altro mezzo miliardo di copie, poi, lo venderò con la collana I maestri del colore realizzata con mio fratello Dino, che era uno straordinario esperto d’arte».
Chi fu per lei il più grande “maestro del colore”?
«Oggi direi Giotto, ancora più dell’altro gigante, Piero della Francesca. Amo ugualmente, ma in modo emotivamente diverso, la lettura del Sidereus Nuntius di Galileo e l’ascolto di Bach, l’altra mia passione, da cui nacque l’idea del primo grande progetto multimediale: La grande storia della musica, 169 dischi e altrettante dispense. Ricordo che mentre stavamo registrando in Slovacchia scoppiò la Primavera di Praga e dovemmo superare difficoltà non comuni».
Poi, nel ’71, subentrarono gli Agnelli...
«Fu Dino a convincermi a cedere al gruppo il controllo azionario della Fabbri. Rimasi presidente per altri due anni, fino a quando non aprii una mia attività nell’industria cartaria. Anche in questo caso, però, non ebbi il senso della misura: un monopolista che riforniva l’80% di carta stampata agli editori di libri e giornali era scomodo a molti, e mi fecero passare dei guai. I carabinieri trovarono il mio numero di targa in un covo delle Br: io non ci detti importanza ma mia moglie, che allora aspettava il nostro primo figlio, mi convinse a trasferirci a Lugano, dove tuttora viviamo. Anche se Milano resta la città che porto nel cuore: pur essendo figlio di un romagnolo di Forlì e di una piemontese di Alessandria, sono nato e cresciuto qui, e mi sento milanese fino in fondo».
Milano, in quegli anni, era davvero capitale dell’editoria, povera di mezzi ma ricca di idee, dove le teste erano quelle di Lattuada, Treccani, Mondadori, Mattioli, Sereni, Solmi. Cosa è cambiato da allora?
«Ho conosciuto questi grandi personaggi, che in certi campi hanno segnato il loro tempo. Abitavo in porta Vittoria, e allora mi piaceva molto questo contesto meneghino-lombardo che oggi purtroppo si è un po’ perso, con l’arrivo di nuove etnie. Ma penso che Milano sia una gran bella città e non la trovo affatto spenta, come dichiarano alcuni miei coetanei. La considero culturalmente viva e con un grande potenziale che l’Expo farà emergere ancora di più».
Eppure Milano non ha una fiera internazionale del libro al pari di Torino o Bologna...
«Non penso ci sia bisogno di altre fiere, ma piuttosto di una maggiore attenzione al libro da parte dei media.

Ma per l’editore che riesce ad aggiornarsi non credo che la professione sia molto più difficile di una volta».
A proposito di offerte mediatiche: si parla spesso di e-book e di librerie online. Il futuro del libro è nel digitale?
«Il digitale ha indubbiamente un futuro, ma vuole mettere il fascino della carta stampata?».

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