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Così possiamo aiutare gli animali salvati dopo la vivisezione

Tante volte mi sono chiesto, e ho discusso animatamente assieme agli amici impegnati in questo settore, se era giusto, se era opportuno, se non si andava oltre il consentito dal buonsenso, dando luogo a una singolare forma di accanimento terapeutico. Scrivo del recupero di animali sopravvissuti agli esperimenti di laboratorio, sopravvissuti a quel termine che nessuna persona sensibile e «umana» vorrebbe mai neanche udire: vivisezione.
Fino a qualche tempo fa le normative che regolavano la sperimentazione sugli animali, imponevano che, al termine delle prove da loro sopportate, la morte liberatrice finalmente levasse fardelli enormi di dolore e lacrime dai loro cuori. Abbiamo recentemente scritto, su queste pagine, degli esperimenti su gatti e scimmie condotti dal prof. Roullier, responsabile dell’unità di Fisiologia e programmi in neuroscienze dell’università di Friburgo (Svizzera). Nonostante, dopo lustri di vivisezione, l’esimio scienziato abbia concluso che gli avanzamenti della neurologia in campo umano sono dovuti alle moderne tecniche di diagnostica per immagini e alla sperimentazione sull’uomo, lui continua imperterrito a ficcare elettrodi nel cervello di topi, gatti e scimmie. Si sa, le buone abitudini sono dure a morire. A morire invece, fra atroci tormenti, sono quei poveri esseri che raggiungono gli stabulari dei centri di ricerca universitari o privati, dove solerti medici, biologi e chimici continuano a perpetrare quell’errore metodologico che affligge la scienza medica da secoli, magari confidando ancora nel positivismo cartesiano, secondo cui gli animali, incapaci di soffrire, sono lì per servire l’uomo in qualunque sua brama, anche la più vessatoria e crudele.
Nonostante in alcune nazioni i metodi statistici, le colture di cellule in vitro, i modelli genetici computerizzati stiano gradualmente sostituendo le «vecchie» cavie, in tutto il mondo non si assiste ancora a un deciso decremento numerico degli esperimenti effettuati su animali vivi.
È quanto accade nel nostro Paese dove il numero delle cavie immolate dieci anni fa non ha subito una decisa riduzione oggi. Quello che è permesso invece è che, in alcuni casi, ratti, conigli e cani, una volta superati gli esperimenti, possano essere richiesti dalle associazioni che hanno strutture e personale (sempre volontario) adatte a farle ritornare se non a una vita normale (difficile dopo quanto hanno provato) a una vita che valga la pena di essere vissuta.
Sono nate così associazioni quali Vitadacani, che ha sede ad Arese (Milano) che dal 1998 gestisce il progetto D14, per il recupero dei beagle da laboratorio. Aderente all’Oipa l’associazione, guidata scientificamente dall’amico Massimo Tettamanti, ha recentemente fondato una branca chiamata Vitadatopi, che estende il recupero a tutte le altre cavie, quali ratti, topi e conigli.
Proprio in questi giorni si è chiusa, con grande successo, la giornata degli animali, dedicata quest’anno, proprio agli animali sopravvissuti ai laboratori di vivisezione.
In tutta Italia i volontari dell’Enpa sono stati in 300 piazze e numerosi cittadini hanno chiesto informazioni per versare il proprio contributo a un progetto destinato alla riabilitazione di chi ha subito le strazianti sofferenze sui freddi tavoli di marmo. Per contribuire al progetto c’è tempo fino al 10 di ottobre: con il numero unico 4.85.

85 è possibile donare a Enpa non solo 1 euro con un sms da Tim, Vodafone, Wind, 3 e da telefoni di casa, ma anche 2 euro con una telefonata da rete fissa Telecom Italia. Aiutiamo queste creature che uno scrittore ha definito come provenienti da «un’altra Treblinka».

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