Fra le poche case editrici che portano con piacere e senza alcun imbarazzo (o prosopopea) il titolo di «cattoliche», una delle migliori è Àncora, che si segnala per coraggio e curiosità, non ha la pretesa di indicare alcuna linea ufficiale e, soprattutto, non ha paura di sbagliare. Per questo fa cultura, non solo per i cattolici ma per tutti.
Un eccellente esempio di questa attitudine è l’appassionato, a volte disordinato, ingenuo e insieme acutissimo, magmatico volume che Curzia Ferrari, ultima compagna di Salvatore Quasimodo, ha dedicato, dopo anni di riluttanze, al poeta premio Nobel 1959 (Dio del silenzio, apri la solitudine, pagg. 232, euro 16).
Il libro è, sotto qualunque aspetto (sia saggistico che biografico) l’esatto opposto di un testo obbiettivo. Ma non sempre la verità emerge dall’obiettività. Spesso a scagliarcela addosso è la passione, quando non il partito preso, allorché esso agisce come una forza destabilizzante, capace di mettere in ridicolo chi si vuole sempre e comunque equilibrato. Da questo libro emerge infatti un ritratto nuovo di Salvatore Quasimodo, liquidato come «comunista» da una pubblicistica che sa distruggerti anche quando ti colloca dalla «parte giusta».
Il ritratto nuovo, qui, non riguarda solo la religiosità del poeta in senso spirituale, peraltro documentabile nell’opera lasciata ai posteri, ma anche e soprattutto il destino personale che tale religiosità modella, fino a fare della sua poesia non tanto un «sistema» pomposamente costruito al modo (anche) di tanti poeti laureati dei nostri giorni, quanto un povero diario di viaggio, scia di lumaca, denso di tentennamenti, correzioni, ritorni, nel quale l’errore, lungi dal dover essere espunto, acquista una parte importante e vitale.
Quasimodo si installa nella poesia del Novecento con una poetica debole accanto alle molte poetiche forti (da D’Annunzio a Montale, che implora «non chiederci la parola» e intanto la dice, bella e forte come non mai). Viceversa, la lingua di Quasimodo procede incespicando: spesso l’ingenuità si presenta come retorica. Quasimodo non nasconde il vuoto, non nasconde l’amarezza del non aver nulla da dire. Ho il sospetto, non avendo mai fatto l’esperimento di persona, che tradotto, e liberato perciò da una lingua formale e intimamente arcadica come l’italiano letterario, Quasimodo vada migliorando, e riveli la sua parte errabonda e diaristica, mai appoggiata a niente, assai meglio che in lingua originale.
Insomma, da questo libro emerge un Quasimodo moderno dal destino di solitudine, dal quale non lo salvò nemmeno il premio Nobel, che anzi lo rinchiuse in una parte ancor meno «sua» delle tante che aveva rifiutato in passato, quando il darsi una parte l’avrebbe sollevato da tanti problemi, anche economici. Ma la sua difficoltà a vivere non è quella che abbiamo studiato come «la solitudine dell’uomo moderno» (ricordate questa barzelletta?), perché proprio la modernità, quella che conosciamo sostanzialmente e non dai libri, e che proclama la nostra disincantata libertà facendoci al tempo stesso marciare sotto le solite bandiere, è stata la causa della sua solitudine: la modernità che ci obbliga - soprattutto gli intellettuali - a stare da questa o da quella parte impedendoci al tempo stesso di stare dalla parte di noi stessi.
No. La sua difficoltà a vivere nel nostro mondo, così ben descritta dal suo rapporto drammatico con il sesso femminile, nasce dalla sua religiosità, e non dalla sua modernità. In questo, Quasimodo ricorda, se mai, un altro non-moderno assurto ad emblema della modernità: Cesare Pavese.
Il libro di Curzia Ferrari nasce dal coraggio dell'autrice ma anche, come detto, dal coraggio dell’editore, che non pone censure alla demolizione de facto di una delle grandi figure del cattolicesimo italiano, l’amico di Quasimodo Giorgio La Pira. Fatti salvi i meriti dell’uomo e del politico, il La Pira del côté Quasimodo si segnala per la sua sostanziale incomprensione dell’amico. Mentre La Pira lo esorta ad astrazioni mistiche, il problema del poeta è concreto: «Non si può pregare un dio generico», dice a Ferdinando Camon.
Qui sta il nucleo della religiosità, il suo scandalo irrinunciabile: la percezione di un punto di fuga, di un’insufficienza del vivere, che desta l’intuizione religiosa, deve poi radicarsi in un «tu». A Quasimodo non interessa solo Dio, gli interessa «il Dio cristiano». Per togliere la religiosità dalla nube del sentimento è necessaria un’esperienza affettiva e personale: questo, dal libro della Ferrari, risulta essere «il» problema di Quasimodo. Ma l’Italia, col crescere del suo prestigio, cerca di farne un personaggio pubblico, una figura vendibile, presentabile. Comunista: questa era l’etichetta giusta. E lui, forse, era troppo debole per togliersela di dosso.
Alla politica preferiva le donne. Lui rincorse molte donne, questo dice la vulgata (e la Ferrari non nega): ma che male c’è a chiedere a Dio di lasciarsi abbracciare proprio come si abbraccia una donna, con la stessa passione? Dio non può essere più generico di una donna. Noi non «crediamo in Dio»: noi abbiamo bisogno dell’abbraccio di Dio. Il Quasimodo di Curzia Ferrari ci appare così, incapace di aderire a una bandiera, uomo difficile, solitario, un po’ scontroso, sempre sulla difensiva. In un’Italia piena di Parole Forti come quella del Dopoguerra la sua battaglia fu - e il poeta lo dichiarò apertamente - in favore della propria irriducibilità.
Anche la Chiesa dimentica spesso il grido dell’uomo, la sua unicità, e si riduce a programma,
progetto, etica, norma. «Con quale attributo le piacerebbe passare alla storia?» gli chiesero un giorno. E lui rispose: «L’irriducibile». Così sia anche di noi. E poco importa che ci piacciano o meno le poesie di Quasimodo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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