Benedetto XVI conclude il viaggio in Terrasanta con un innegabile successo. Successo che non è scalfito dalle prevedibili reazioni critiche di alcuni rabbini - le cui opinioni sono tenute più in conto dalla stampa occidentale che dallo stesso mondo ebraico - e dallo speculare commento negativo di Hamas, vale a dire dalle reazioni di quanti, per diversi motivi, hanno giudicato i suoi interventi non per ciò che contenevano ma per ciò che a loro dire avrebbero potuto o dovuto contenere.
Il pellegrinaggio di Ratzinger in questa regione era il più difficile del suo pontificato. Il Papa doveva parlare ai cristiani, che lo avevano inizialmente sconsigliato di venire, dato il momento particolarmente difficile che si trovano a vivere e la delicatezza del quadro politico; doveva parlare agli ebrei dopo i mesi difficili del caso Williamson; doveva parlare ai musulmani chiudendo definitivamente le polemiche suscitate dalla lezione di Ratisbona. Ventotto discorsi in una settimana, limati fino all’ultimo, per un percorso disseminato di rischi e insidie. Benedetto XVI è riuscito a dire tutto ciò che aveva da dire e che andava detto con chiarezza dalla Santa Sede, evitando ogni possibile trappola sul suo cammino.
Ha parlato ai cristiani, invitandoli a non abbandonare la Terrasanta, incitandoli a resistere, come elemento insostituibile di pacificazione e unità in una realtà lacerata dall’odio e dai conflitti. Ha parlato al mondo ebraico e allo Stato d’Israele, senza farsi strumentalizzare come più d’uno temeva alla vigilia: ha pronunciato parole forti contro l’antisemitismo; al memoriale dello Yad Vashem ha mandato un messaggio chiarissimo a chi nega o sminuisce la Shoah.
Com’era prevedibile, e com’era peraltro successo anche a Papa Wojtyla in occasione di discorsi al mondo ebraico, le sue parole sono state criticate da chi voleva di più, da chi pretende che ogni discorso riproponga una summa di tutto ciò che i Pontefici hanno detto dal Concilio in poi sull’argomento. Ma chi ha criticato Benedetto XVI, ha dimostrato talvolta di non averlo nemmeno ascoltato: il Jerusalem Post di martedì scorso riportava infatti vari articoli con le accuse dei rabbini scontenti, senza però mai citare, in alcuna pagina, la frase chiave detta dal Papa contro il negazionismo. Con lucidità e coraggio Ratzinger, proprio nell’occasione più delicata del viaggio, la visita al memoriale dell’Olocausto, ha voluto ricordare che la Chiesa si schiera oggi accanto a quanti soffrono persecuzioni a causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione. A Israele ha spiegato che la sicurezza non può essere mai disgiunta dalla giustizia e dal rispetto dei diritti umani di tutti.
Due giorni dopo, in una giornata definita da lui stesso «memorabile», il Papa ha visitato i Territori, chiedendo a gran voce uno Stato sovrano con confini certi per il popolo palestinese, l’abbattimento del muro che rende difficile e spesso impossibile la vita nella West Bank, e invitando al tempo stesso i giovani a non cedere alla tentazione del terrorismo. Messaggio inequivocabile e forte, anche se strumentalmente criticato da Hamas, che non ha digerito la visibilità concessa ad Abu Mazen.
Ma il messaggio più significativo e interessante del pellegrinaggio papale, passato quasi in secondo piano, è stato quello riguardante l’islam e il dialogo tra le religioni. Smentendo quanti hanno cercato di arruolarlo nella schiera dei sostenitori dello scontro di civiltà, Ratzinger si è presentato come paladino dell’«incontro di civiltà» e del dialogo con le religioni, a cominciare dall’islam. Dialogo culturale, per proclamare «ciò che noi abbiamo in comune».
Il Papa pellegrino, venuto qui innanzitutto per incoraggiare i cristiani e ripercorrere i luoghi della vita di Gesù, si è presentato umilmente, sulla scia dei grandi predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II. Non ha preteso di compiere gesti storici, non ha scritto discorsi e omelie pensando ai titoli dei giornali. Forse proprio per questo il suo messaggio è destinato a lasciare un segno.
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