Costantinopoli, l’eterna rivale di Roma

Marco Meschini

Chissà se oggi, giungendo nell’antica Bisanzio, Benedetto XVI penserà: «Eccomi infine a Costantinopoli». Ma, nel caso, non dovrà esplicitare quel pensiero, altrimenti sarà contraddetto subito: «Guardi che siamo a Istanbul». Costantinopoli, Bisanzio, Nuova Roma, Nuova Gerusalemme, Occhio del Mondo, Zarigrado, Regina delle città, Porta della Felicità oppure, icasticamente, La Città: sono solo alcuni dei molti nomi con cui la storia ha onorato l’antica capitale dell'Impero romano, la piccola Bisanzio trasformata da Costantino in Costantinopoli, la sua città, residenza del primo grande imperatore cristiano della storia.
Per la verità, non sembra che per secoli i musulmani si siano fatti problemi a chiamarla con l’appellativo voluto dal suo rifondatore, Costantino appunto. È solo di recente, con il montare della marea nazionalistica, che il nome Istanbul ha preso il sopravvento, finendo con l’essere anch’esso un lembo di quella bandiera politico-culturale che la Turchia non smette di agitare nei sogni (o negli incubi) dell’Europa. Eppure, etimologicamente parlando, questo nome non ha in sé un carattere «turco» così definito come si vorrebbe far credere, dato che Istanbul deriva dal greco «eis ten polin», cioè «alla città». Il fatto è che però le parole, a volte, sono tutto.
Viene spontaneo alla mente il tragicosmico episodio di Ratisbona, giusto un paio di mesi fa. Accade che un pontefice romano, di origine teutonica e per giunta in terra sua, e per di più nell’università che già fu la sua, citi un testo dimenticato (o per meglio dire ignorato) da tutti, e si scatena il pandemonio. I musulmani di mezzo mondo usano la citazione ratzingeriana dell’ormai celebre passo di Manuele II Paleologo - l’imperatore bizantino che contrastò militarmente e culturalmente la rinnovata offensiva islamica contro Costantinopoli fra Tre e Quattrocento - per un attacco su scala globale. Ed ecco le accuse: «Il papa romano insulta l’Islam e Maometto». E poi i salti logici: «Benedetto XVI è come Urbano II, l’inventore delle crociate, cioè le guerre sante», come se il jihad fosse un’opera pia. E poi le manifestazioni, le violenze, i martiri cristiani. Perché le parole svelano le intenzioni dei cuori. In effetti, a volte, le parole sono tutto.
Ora alle parole seguono i fatti. Il viaggio è innanzitutto un fatto. Ma di che natura? Ascoltiamolo, il santo padre: «Il mio non è un viaggio politico ma pastorale». Semplice, perfetto. Ma quali orecchie udranno queste parole? Le orecchie del premier turco Erdogan sono senz’altro da mercante: prima non voleva riceverlo, il papa, per non affiancare la sua immagine a quella del bianco uomo di Roma e non rischiare quindi alle elezioni del prossimo anno. Decisamente pastorale. Poi, ieri, decide di incontrarlo per una mezz’ora scarsa nella «saletta Vip» dell’aeroporto di Ankara, e conclude dicendo che «il papa è favorevole all’ingresso della Turchia in Europa». Sembra proprio un pastore che parla al suo gregge. Perché, a volte, è tutto una questione di prospettive.
Ripartiamo dunque dalla storia. Costantino fondò Costantinopoli nel 330 d.C. per staccarsi da Roma, la Vecchia Roma troppo occidentale. Il flusso dei traffici, della politica e della cultura era, in quel IV secolo inoltrato, sbilanciato verso Oriente, e Costantino non voleva rimanere tagliato fuori dalla storia. Egli la fondò su basi cristiane a imitazione della, ma anche in netta antitesi con la Roma pagana: sette colli, un senato, un foro, un capitolium. Ma la religione ammessa fu quella cristiana: non pagano il nome, ispirato a se stesso (Costantino era dichiaratamente cristiano, anche se attese fino all’ultimo prima di farsi battezzare, com’era prassi all’epoca); cristiane le moltissime reliquie fatte venire dalla Terrasanta, a cominciare dalla Vera Croce ritrovata per miracolo dalla madre stessa dell’Imperatore; e cristiane le grandi costruzioni pubbliche, anche se la cattedrale per eccellenza come la conosciamo noi, Santa Sofia, venne poi rifatta da Giustiniano. Insomma Costantino volle Costantinopoli per radicare al punto di giuntura tra Europa e Asia un perno imperiale e cristiano, da dove contenere le pressioni dei barbari da nord e dei persiani da est. Anzi, progettava di espandere il suo impero proprio verso Oriente, a danno dei persiani. Perché è vero che Costantinopoli allora, e Istanbul oggi, è un ponte. Ma un ponte, com’è noto, si può percorrere in entrambe le direzioni.
Non a caso da lì passarono i crociati per riprendersi la Terrasanta occupata dai turchi islamizzati nell’XI secolo. E non a caso l’Islam riprese la sua espansione proprio contro Costantinopoli, nel XIV-XV secolo, finendo con il cogliere il frutto di un tentativo plurisecolare (il primo assedio islamico alla città risale al 674 d.C.) nel 1453, con il sultano dal nome-omen Maometto II. Da lì l’Impero ottomano allungò le sue armate e le sue navi verso l’Europa per molto tempo, sino almeno alla duplice sconfitta di Lepanto (1571) e Vienna (1683). Fu il culmine di un Impero destinato a un lento declino, nonostante i tentativi di occidentalizzazione attuati da vari sultani.
Ora, è proprio questo carattere di ibrido che, ancor oggi, conserva la Turchia - tra Islam estremista e laico - ad essere in questione. Benedetto XVI sembra puntare sulle potenzialità ancora vive dell’esperienza turca: una distinzione almeno accettabile tra religione e Stato, cosa che formalmente ci sarebbe già, ma che di fatto non è che superficie senza retroterra. Un solo, piccolissimo esempio appena riportato da questo giornale grazie ad Andrea Tornielli: l’altro ieri le autorità della Turchia hanno bloccato l’attività del centro stampa del Patriarcato ortodosso a Istanbul perché sugli accrediti per i giornalisti stava scritta la parola «ecumenico», una qualifica che la Turchia non ha mai riconosciuto.

È solo l’ultima delle vessazioni secolari a cui sono sottoposti i cristiani di tutte le confessioni in Turchia, versione «laica» della dhimmitudine imposta dal Corano ai fedeli di altre religioni sotto regime islamico.
Per queste ragioni storiche - nel senso sia della durata, sia del presente - il viaggio del papa è davvero «pastorale», perché i gesti, a volte, sono tutto.

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