È più diseducativa la parabola sanguinaria, però rovinosa, di un macellaio della mafia, oppure certi sereni dibattiti a insulti e schiaffoni tra eminenti membri del Parlamento italiano? E cosa solletica le emulazioni più sinistre: un boss che dopo una vita di ammazzamenti finisce a marcire tra quattro mura affrescate di muffa, oppure impiegati e shampiste, madri e figlie, mariti e cognate, che per cinque minuti sotto i riflettori svendono la propria storia e i propri segreti, come pesce fresco sulle bancarelle del mercato?
Il dilemma non è nuovo. Che cosa fa bene e che cosa fa male, della televisione popolare a larghissima tiratura? Ci portiamo dietro il dibattito da troppi anni, puntualmente l'abbiamo riaperto per Totò Riina. Ed è questo che in fondo stupisce di più. Stupisce che si riapra il contenzioso con questi toni e a questi livelli, addirittura con un ministro della Giustizia in prima linea nella crociata della censura, per una delle fiction più belle, più serie, più rispettabili degli ultimi anni. Come se mancassero occasioni più giuste e più opportune, come se dal video non tracimasse abbastanza porcheria.
Per la serie: adesso, la parola all'esperto. Maurizio Costanzo, in questo caso, lo è a pieno titolo. Esperto di televisione, certo, ma anche di mafia, avendola studiata nei suoi programmi ed essendone pure diventato bersaglio.
Scusi la premessa, solo per inquadrare: lei è del metodo Mastella, che censura senza vedere, o resta fedele al vetusto metodo di parlare solo dopo aver visto?
«Ho visto. Qualcosa avevo visto anche in anticipo».
Perfetto, possiamo entrare nel merito. Impressione sua?
«A me è sembrata proprio bella».
Più fiction o più ricostruzione?
«Il genere è quello delle fiction, chiaramente. Ma stavolta è riuscita ad essere anche una bellissima ricostruzione».
Buona televisione, ogni tanto.
«Buonissima televisione».
Allora non è detto che per fare grandi ascolti si debba per forza sculettare e sbracare.
«È importante che la televisione sappia proporre questo genere di racconti sulla realtà italiana».
Parlando di mafia. Che risultati possono portare operazioni come questa, divulgare la storia di Riina?
«Il capo dei capi è fondamentale soprattutto perché testimonia quanto siano sbagliate le strategie della mafia».
In che senso?
«Nel senso che basta vedere come finiscono. Con una sconfitta. Riina finisce in galera, non mi sembra un esito così invidiabile».
Eppure s'è sollevato il polverone: si accusa il lavoro televisivo di mitizzare un criminale, di raccontare un mezzo eroe, di scatenare pericolose emulazioni.
«Emulazione? Ma quale emulazione. Escluso. Allora qualunque racconto di mafia e di criminalità può scatenare l'emulazione. Che facciamo, aboliamo tutto?».
Lei che aria ha respirato in giro?
«Ho dedicato una parte del mio programma di ieri sera proprio a questa vicenda. Avevo in studio molti politici. Ebbene: per una volta, erano tutti d'accordo. Da Pecoraro Scanio alla Mussolini, da Ferrero ad Alemanno, si è alzato un coro per dire che Il capo dei capi è un ottimo lavoro».
Ma allora è rimasto solo Mastella a considerare l'opera diseducativa e a volerla cancellare, tra parentesi prima dell'ultima puntata, rigorosamente senza averla vista di persona...
«Lo dico senza sarcasmo, perché io a Mastella resterò sempre grato, avendomi concesso di fare un ciclo di trasmissioni dentro il carcere. Lo dico senza sarcasmo e acredine, ma lo dico: sì, ho il sospetto che sia rimasto il solo a parlare male del Capo dei capi».
Ha perso un'occasione per starsene zitto?
«Non giudico».
Ma un consiglio non glielo darebbe?
«Dico solo: sempre meglio vedere direttamente. Sempre. Soprattutto in posizioni delicate come la sua. Mai muoversi per sentito dire».
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