La Costituzione e i maestri del politicamente corretto

Caro Granzotto, si celebrano in questi giorni i sessant’anni della nostra Costituzione e anche tramite la pubblicità istituzionale ne vengono esaltate le altissime virtù che la rendono, come ha dichiarato un politico del quale ora mi sfugge il nome, «la costituzione più bella del mondo». Domanda: il fatto che da più parti, intendo da destra e da sinistra, si invochino riforme costituzionali non sta a significare che la Costituzione non è poi questa gran cosa?


Le celebrazioni celebrano, caro Demattei. Infiocchettano. Anche una Costituzione come la nostra. Che non è né grande né piccola cosa: ultima ad apparire sulla scena, nelle sue parti dottrinali risulta un diligente compitino e in quelle pratiche un diligente papocchietto molto influenzato dal clima del dopoguerra (la sconfitta che con un magistrale ricorso dialettico trasformammo in liberazione. Da Oscar). Tutti i princìpi elencati, la sovranità popolare, i diritti eccetera - tutta la parte retorica, intendo - è presa pari pari da precedenti carte costituzionali. La stessa Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’Urss di Stalin, per intenderci, affermava che il regime era democratico, che la sovranità apparteneva al popolo, che i cittadini avevano pari dignità sociale, che godevano d’ogni qualsivoglia libertà e che essendo quella personale inviolabile non gli si poteva mettere manette o mordacchia senza preventivo giusto processo. Parole. Tronfie folate di fumo negli occhi che non sono un'esclusiva sovietica. Prenda l’articolo 15 della nostra Costituzione, quello che recita: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili». La segretezza delle comunicazioni di D’Alema, forse. Non quelle di Berlusconi, come i recenti fatti purtroppo confermano.
L’unico aspetto in qualche senso originale della nostra Magna Charta, redatta a macerie ancora fumanti, è bene ricordarlo, è l’aver messo nero su bianco il (parziale) ripudio della guerra: l’articolo 11, preso a suggello dello spirito pacifista della Repubblica. Ciò che ha portato il maestro del trombonismo istituzionale, Oscar Luigi Scalfaro, a enunciare: «La Costituzione deve essere conosciuta e amata. Basterebbe conoscere con cura i primi undici articoli, per esempio l’articolo 11, che afferma un principio fondamentale: l’Italia ripudia la guerra. Si tratta di una dichiarazione formidabile per dire no alle aggressioni dei popoli e agli stermini che sono in corso anche mentre noi stiamo parlando». Ma va? E una volta detto no? E a chi dire no quando l’aggredito è poi l’aggressore e l’aggressore si ritrova aggredito? Scalfaro è un virtuoso del no («Non ci sto!», messaggio televisivo alla nazione delle ore 22,32 di mercoledì 3 novembre 1993), ma se il «No!», anche tonante, glielo rivolgi a quelli di Al Qaida, sai che baffo se ne fanno. E poi non è vero: non è vero che l’Italia ripudia la guerra. L’articolo 11, infatti, «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Limitazioni di sovranità necessaria.

Un bell’esempio - ma in questo noi italiani siamo dei maestri - di political correctness ante marcia. E siccome la correttezza politica è la versione politicamente corretta dell’ipocrisia, non c’è da farsene, come se ne fa, un vanto.

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