Segregate in casa. Picchiate, umiliate, minacciate. Per più di un anno. L’incubo delle schiave moderne, vittime di un’organizzazione criminale che si arricchiva con lo sfruttamento della prostituzione. Cinque albanesi a gestire il business. Gli stessi che, oggi, sono stati condannati con rito abbreviato a 5 anni e 2 mesi di carcere. All’arrivo della polizia nelle abitazioni in cui erano rinchiuse, due donne sono scoppiate in lacrime e hanno ringraziato gli agenti. Gli arresti sono stati resi possibili grazie alla denuncia di una delle vittime, un infermiera paraguayana attratta in Italia con l’inganno, che è riuscita ad allontanarsi all’organizzazione criminale solo quando i carabinieri l’hanno controllata mentre era costretta a prostituirsi. L’inchiesta, cominciata all’inizio del 2007 a Novara, è stata trasmessa per competenza territoriale a Milano. Il pubblico ministero Francesco Prete aveva contestato agli imputati di aver sfruttato almeno otto donne di diverse nazionalità, tra cui una ragazza italiana, dal 2006 fino al giorno dell’arresto. Le vittime hanno confermato quanto denunciato dall’infermiera paraguayana, che era stata attratta in Italia da una connazionale, dicendole che c’era un posto da infermiera per lei. La donna aveva deciso di partire, lasciando a casa una bimba di pochi mesi, ma quando il 26 aprile 2006 è arrivata a Malpensa, all’aeroporto ha trovato gli albanesi che l’hanno portata in un appartamento in via Bordighera 34 a Milano, dove viveva il capo dell’associazione, Ilir Alija di 34 anni. Qui sono cominciate le violenze, tra ripetuti stupri e botte per costringerla a prostituirsi nel territorio intorno all’aeroporto di Malpensa e nei paesi limitrofi del Ticino, a confine tra Lombardia e Piemonte. Fino a quando nel gennaio successivo è stata fermata dai carabinieri di Novara perché trovata senza permesso di soggiorno. Portata in caserma, la donna non ha trovato subito il coraggio necessario per denunciare i suoi aguzzini, ma una volta espulsa e tornata in Paraguay ha contattato una onlus che opera in Italia per la gestione di permessi di soggiorno per la protezione sociale, il cui numero le era stato fornito dai militari. Ha quindi raccontato la sua storia, tornando in Italia con un permesso di soggiorno per motivi di giustizia e nascosta in una località segreta. Gli inquirenti hanno poi scoperto l’attività criminale degli albanesi, e la loro ferocia. Picchiavano le prostitute che invadevano il loro “territorio”, ed erano pronti a usare le armi contro i loro protettori. Al termine dell’inchiesta il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio dei cinque albanesi con le accuse, a vario titolo, di associazione per delinquere, reclutamento di una cittadina straniera al fine di destinarla alla prostituzione (un reato previsto dalla legge Bossi-Fini), riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione, violenza sessuale ai danni dell’infermiera, porto e detenzione d’armi, sequestro di una romena sottratta ad un’altra organizzazione albanese mentre si prostituiva, lesioni e rapina. Gli imputati hanno poi chiesto il giudizio con rito abbreviato. Oggi la sentenza con condanne da 2 anni e 8 mesi a 5 anni e 2 mesi di reclusione. Il giudice per l’udienza preliminare Vincenzo Tutinelli ha assolto gli imputati solo dal reato di riduzione in schiavitù su richiesta del pm Claudio Gittardi. Ha poi inflitto la pena più alta ad Alija, che risponde anche di violenza sessuale e rapina.
Condannati inoltre Alexander Joku, 37 anni; David Lteri, 42; Gjelosh Troja, 30; e Paulin Troja, 27. Il magistrato ha infine disposto risarcimenti di 2.500 e di 10mila euro per due delle vittime che si sono costituite parte civile.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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