«Cristina e Piero, sembrava una coppia perfetta»

Un matrimonio che sino a quando ha funzionato, sembrava perfetto. Lui e lei persone gentili, educate, solari che vivevano uno per l’altro in perfetta armonia. Senza problemi economici, circondati dall’affetto della famiglia di lei, che si prendeva cura anche dei loro bambini di tre e sei anni. Cristina Messina e Piero Amariti, entrambi 34 anni, abitavano in un appartamento, messo a disposizione dal padre di lei. E nello stesso immobile vive anche la sorella Cinzia, 35 anni, la stessa che ieri ha assistito alla tragedia.
Negli ultimi tempi, tuttavia, la convivenza con i suoceri, aveva raffreddato i rapporti fra quest’ultimo e il genero. «Forse se avessero vissuto lontano - raccontano alcuni conoscenti - i loro dissapori, ammesso che esistessero davvero, li avrebbero appianati da soli, come tante altre coppie». Un’ipotesi in qualche modo avallata anche dai vicini che avrebbero sentito litigare in maniera piuttosto accesa i due uomini.
Germana Amariti difende a spada tratta invece il cugino Piero: «Era una bravissima persona per lui la cosa più importante era la famiglia, non mi risulta che abbia mai avuto atteggiamenti violenti o che abbia mai aggredito o minacciato la moglie. Sono sconvolta per quello che è successo, non riesco a capacitarmene». «Al di là di tutto sembravano affiatati e innamorati, e ai loro bambini davano tutto e di più. Quanto alle frequenti liti, è tutta un’invenzione» aggiungono sempre alcuni amici che preferiscono restare anonimi. Cugina e amici che sembrano ignorare la brutta vicenda del 30 giugno, quando pistola alla mano, Amariti avrebbe costretto la moglie e fare l’amore. La donna non reagì per non coinvolgere i figli, addormentati nella stanza accanto, ma poi chiamò il 113. La polizia non arrestò l’uomo perché l’arma non venne trovata e la donna alla fine non calcò la mano sulla vicenda della violenza. «Se l’intervento di magistratura e forze dell’ordine fosse stato più incisivo, mia nipote sarebbe ancora viva» accusa ora lo zio Michel Lefebvre.
Le varie versioni tuttavia convergono sul fatto che la situazione era precipitata quando, in seguito all’episodio del 30 giugno, la donna aveva «cacciato di casa» il marito. «Se n’era dovuto andare ma il suo chiodo fisso rimanevano sempre Cristina e i figli». Piero aveva continuato a lavorare nell’agenzia di pratiche automobilistiche aperta dal padre Tommaso in via Torino 2, vicino la stazione di Rho. Lei invece andava tutte le mattine nel bar trattoria «Ratatuia» in via Risorgimento, di proprietà di papà Lino, come del resto l’intero stabile che ospita anche l’autofficina «Eleonora», nome dato in ricordo di una terza sorella Messina morta oltre vent’anni fa.
«Venivano entrambi da due ottime famiglie – ricordano nel quartiere - i loro suoceri sono gran lavoratori che avevano soprattutto abituato i figli a guadagnarsi il pane quotidiano». Profili di protagonisti, vittime e familiari che rendono ancora più inspiegabile la carneficina consumatasi ieri mattina, sotto gli occhi allibiti di un bimbo di sei anni.

«Piero sembrava tranquillo – racconta chi lo ha incontrato nei giorni scorsi - parlava della moglie della quale era ancora invaghito, e che sperava di riconquistare, proprio come un ragazzino innamorato per la prima volta. Nei suoi discorsi non c’era nulla che potesse far pensare a quanto sarebbe accaduto dopo qualche giorno».

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