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Crolla la fede nei «Csi» Troppo sgangherata l’indagine su quel pc

Non è il Dna la scoperta più recente, l’ultima risorsa degli investigatori della scientifica. Anche se così parrebbe, visto che non c’è processo reale o serie televisiva in cui un profilo genetico la faccia da padrone, condannando o scagionando.
Di fatto la prima condanna al mondo basata sulla prova del Dna è avvenuta in Inghilterra, più di vent’anni fa, e noi, in Italia, abbiamo imparato a sfruttare la saliva lasciata su un mozzicone di sigaretta già nel 1992, a Capaci.
Il settore più avanzato, più moderno nelle indagini tecnologiche è piuttosto quello del «digital forensic», vale a dire l’identificazione, la raccolta e l’interpretazione di qualsiasi informazione, con valore probatorio, che sia memorizzata o trasmessa in un formato digitale. Cellulari, memory card e, soprattutto, hard disk. La gioventù della disciplina comporta inevitabilmente due ordini di problemi. Il primo riguarda il progresso incessante del campo, e il secondo, evidentemente legato al precedente, ha a che fare con l’aggiornamento e la preparazione di chi se ne occupa.
Alberto Stasi, nell’ora presunta della morte di Chiara Poggi, stava lavorando sul proprio pc, sia alla tesi che stava scrivendo sia impegnato in qualcosa di meno raffinato. Lo scopriamo oggi, a due anni di distanza dal delitto per il quale è l’unico indagato, e questa è una notizia che non può che lasciare perplessi. Certo c’è sempre la possibilità che il giovane abbia modificato l’orologio del computer, si sia messo a lavorarci un po’, e poi abbia cancellato ogni traccia dell’azione. Possedeva conoscenze sufficienti per farlo, ma con le «possibilità» è difficile andare avanti.
Chi professionalmente si occupa di investigazioni computer-related è comunque sbalordito dalla piega che ha preso la vicenda. Perché esistono protocolli d’indagine ben noti, procedure semplici ma fondamentali, pena l’inutilizzabilità della prova. Se c’è un computer da esaminare, sia acceso oppure spento, la prima azione comporta la clonazione del dispositivo, non certo il suo esame diretto, con il rischio di compromettere per sempre dati e informazioni.
La perizia informatica sembra aver segnato un punto a favore della difesa, ma ciò non significa che si sia scritta la parola fine alla vicenda. Certamente sarà determinante incrociare l’alibi di Alberto al computer con tutti gli altri dati, sperando che il prossimo «superperito» non ci dica che anche il momento della morte di Chiara è da fissare in tutt’altro orario. Ma qui mi stupirei meno, dato che l’epoca di un decesso avvenuto da qualche tempo, sulla base dei soli dati tanatologici si stima sempre con un intervallo di qualche ora, mai in un lasso ristretto alla mezz’ora.
Ho piuttosto, davanti alle vicende di Garlasco o di Perugia, la percezione di un mutato atteggiamento. Gli omicidi in Italia sono fortunatamente diminuiti, ma più delitti di un tempo sembrano incomprensibili, per il movente che sfugge o è banale, per la crudeltà e la sproporzionata efferatezza dei gesti. In questo scenario, non certo limitato al nostro paese, s’è avvertito il bisogno di una figura rassicurante, capace di dare ordine al caos di un crimine attribuendo tempi, modi e responsabilità. Lo si voglia chiamare tecnico o esperto, specialista della scientifica o altro, a lui ci si è rivolti perché chiarisse tutto. E l’operazione ha trovato rinforzo negli stereotipi televisivi di Csi. Poi, improvvisamente, pare che la fiducia si sia trasformata in scetticismo, il sacerdote in camice bianco in un mestierante pressappochista, magari nemmeno troppo corretto. Non è così, nemmeno un po’, e la verità è che la scienza costituisce una grande risorsa ma i suoi strumenti vanno utilizzati ben conoscendone le potenzialità e i limiti, sapendo come e dove applicarli. Per farlo occorre investire nello studio di protocolli condivisi, nella formazione e nell’aggiornamento costante.
Tornando a Garlasco, un ultimo appunto: aspettiamo di conoscere il quadro probatorio nel suo insieme, senza esaltare né affossare un singolo aspetto.

Ricordando che il nostro sistema giuridico si fonda su un caposaldo, un motto latino che recita in dubio pro reo.

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