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"Nessuna cospirazione per far assolvere Pifferi"

Il gup ha respinto le accuse a psicologhe e difensore. "Non ci sono prove della falsificazione dei test"

"Nessuna cospirazione per far assolvere Pifferi"
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Nessuna «cospirazione criminale» tra psicologhe e difensore nelle valutazioni dello stato mentale di Alessia Pifferi durante il procedimento a suo carico per l'omicidio della figlia Diana di 18 mesi, lasciata morire di stenti nel luglio del 2022 (per cui la donna è stata condannata in Appello a 24 anni di carcere). Dal processo in abbreviato infatti «non è emerso alcun elemento concreto che lasci presupporre l'esistenza di una vera e propria» congiura con «l'intento (...) di condizionare a tutti i costi il processo penale» di Alessia Pifferi.

Sono le motivazioni con cui il gup Roberto Crepaldi ha assolto il primo dicembre l'avvocato Alessia Pontenani, difensore dell'imputata, tre ex psicologhe del carcere di San Vittore e lo psichiatra e consulente della difesa Marco Garbarini e ha prosciolto una quarta psicologa, rinviata a giudizio solo in relazione a una vicenda legata a corsi di formazione. Gli imputati del processo «Pifferi bis» erano difesi dagli avvocati Adriano Bazzoni, Alessandro Pistochini, Mirko Mazzali, Francesca Beretta, Corrado Limentani e Gianluigi Comunello. Il pm Francesco De Tommasi, che chiedeva pene fino a quattro anni, aveva ipotizzato un'attività di «manipolazione», anche attraverso un test falsificato, per aiutare l'imputata a ottenere una perizia psichiatrica e a essere dichiarata incapace o parzialmente incapace. Le perizie poi ci sono state, sia in primo grado sia in Appello, ma Pifferi è sempre stata valutata capace di intendere e volere e condannata in un primo momento all'ergastolo.

Per il giudice, «si ritiene provato» che il test di Wais «sia stato realmente sottoposto» all'imputata dalle psicologhe del carcere, mentre è «priva di adeguato supporto probatorio» la presunta «falsità della diagnosi conseguente». Ancora: «Le relazioni del carcere (...) danno conto delle difficoltà» della donna «di accettare quanto era accaduto e le proprie responsabilità - quantomeno sul piano etico-morale, tralasciando l'aspetto giuridico - e descrivono un comportamento della detenuta suggestivo di problematiche di adattamento o anche di possibili deficit». Queste, con la «inaudita pressione mediatica» e il rischio di suicidio, sono le ragioni che hanno spinto «non le odierne imputate ma lo staff della casa circondariale» a prestare «particolare attenzione» alla detenuta e a scegliere di sottoporla «a un test che consentisse di valutarne le risorse».

Conclude il gup: «A dispetto» delle indagini, in relazione «alla mole degli atti acquisiti, all'ampiezza dell'apporto tecnico richiesto ai consulenti, dell'utilizzo di tecniche di indagine particolarmente invasive (intercettazioni telefoniche, sequestri di cellulari e supporti informatici) e del numero dei soggetti sentiti» sono molte «le carenze riscontrate sul piano probatorio».

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