
C’è un filo rosso, e non è più invisibile. Da settimane anzi da mesi l’Italia vive una sequenza ininterrotta di assalti alle regole: cortei che nascono come rivendicazioni e diventano trappole urbane, blocchi stradali che paralizzano intere città, pattuglie di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza aggredite, negozi devastati, auto rovesciate, scontri e minacce. Una minoranza militante si è assunta il diritto di trasformare lo spazio pubblico in un’arena di guerra civile a puntate.
In tutte queste manifestazioni dalle piazze pro-Pal alla vertenza Gkn, dalle occupazioni agli scioperi a sorpresa si infilano sistematicamente frange antagoniste, violente e anarchiche, che nulla hanno a che fare con il dissenso: entrano con un solo scopo, destabilizzare lo Stato. E il livello di disciplina con cui operano pone una domanda che non può più essere evitata: questi gruppi arrivano “dopo” o sono già dentro fin dall’inizio?
Alla luce della precisione tattica, della scelta chirurgica dei punti sensibili, della rapidità con cui convergono e colpiscono, spetterà a magistratura e forze dell’ordine di cui conosciamo professionalità ed efficacia stabilire se esistono infiltrazioni postume o accordi preventivi con chi convoca proteste, a volte autorizzate, altre totalmente illegali. Perché il dubbio, oggi, è legittimo: i banditi entrano a giochi iniziati, oppure siedono al tavolo prima che il gioco cominci?
Non è un caso isolato se la violenza ha scelto anche la stampa come bersaglio. Prima è arrivata una minaccia di morte alla sede del quotidiano “Il Tempo” a Roma, indirizzata agli editori, ai vertici e ai giornalisti del giornale: intimidire chi racconta, per ridurre al silenzio il controllo pubblico sui fatti. Poi il salto di livello.
Due automobili una di un giornalista e una della figlia fatte saltare in aria. Al giornalista e ai suoi familiari va la più sentita solidarietà e la vicinanza per questo fatto gravissimo. Per un istante la mente torna agli anni degli attentati mafiosi: stesso linguaggio, stesso metodo colpire nel buio per zittire chi osa raccontare. La logica è identica: non confutare, non rispondere, ma spegnere la parola con l’esplosivo. E diciamolo senza giri: chi adotta gli stessi metodi, per quanto si travesta da “militante” o da “rivoluzionario”, si colloca moralmente alla pari con quei poteri che l’Italia ha già conosciuto e che ha giurato di non tollerare mai più.
Come se non bastasse, oggi si è toccato un altro livello di ostaggio pubblico: un aeroporto preso di mira a Firenze da un corteo che devia di proposito, sfonda i cordoni ed entra nella principale infrastruttura di una città. Questa non è più protesta: è sabotaggio civile sotto copertura di diritti. È un pezzo di Stato sequestrato da una minoranza che pretende di imporre la forza al posto della legge.
A saldare questa esplosione di violenza c’è chi, per tornaconto probabilmente politico, soffia deliberatamente sul fuoco immaginando magari di incassare voti dal malcontento, senza vedere che sta alimentando una dinamica di odio sociale che non si spegnerà da sola. E quando lo Stato arretra di un passo, il caos avanza di dieci. Un punto va inciso nella pietra: manifestare è un diritto sacro; violare la legge non lo è. Chi occupa aeroporti, chi devasta città, chi colpisce agenti, chi intimidisce la stampa, non esercita un diritto: commette un’aggressione contro l’intera convivenza civile.
E se questo clima d’odio organizzato non viene fermato subito, non rallenterà: peggiorerà. A pagare non saranno i violenti: a pagare sarà la maggioranza dei cittadini onesti, quelli che vogliono vivere in tranquillità, serenità e sicurezza rispettando legge e istituzioni. O si ferma ora questa escalation, oppure sarà proprio quella maggioranza perbene a pagare il prezzo di un Paese consegnato al disordine e non potremo dire che non eravamo stati avvertiti.
Un pensiero e un grazie di vero cuore va alle famiglie delle donne e degli uomini che, ogni giorno, mettono il proprio corpo tra noi e la violenza facendo da scudo umano alla legge, alla libertà e alla democrazia.