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Nepal, famiglia di italiani si salva dall'hotel in fiamme durante la rivolta

La famiglia, originaria di Parma, si era recata in Nepal per occuparsi dei bambini orfani tibetani, ma poi è scoppiata la rivolta. I nostri connazionali sono salvi per miracolo

Nepal, famiglia di italiani si salva dall'hotel in fiamme durante la rivolta
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Una situazione a dir poco terribile quella in cui si trova il Nepal in questo momento. In queste ultime ore, infatti, si è scatenata una violenta rivolta portata avanti dal gruppo chiamato "Generazione Z". In sole 48 ore ci sono state feroci manifestazioni, proteste e aggressioni. La capitale Kathmandu è stata messa a ferro e fuoco, ed è stato necessario mobilitare i militari.

A scatenare il caos sono stati i ragazzi di venti/trent'anni, furiosi dopo l'oscuramento delle piattaforme social avvenuto a fine agosto. In poco tempo, si è perso completamente il controllo. Ad oggi si contano 22 morti e più di 400 feriti. Eppure si protesta ancora, perché la mossa del governo è stata vista come un tentativo di imbavagliare le comunicazioni digitali.

In un contesto del genere si è trovata una famiglia di nostri connazionali. Filippo Reggiani, 48 anni, aveva infatti raggiunto Kathmandu il primo di settembre. Con lui la figlia Matilde, di 11 anni, la madre Cinzia e il padre Maurizio, entrambi di circa 70 anni. I quattro, originari di Parma, intendevano aiutare una scuola di orfani tibetani. "Da tempo facciamo volontariato grazie all'associazione Tashi Orphan school", ha raccontato Reggiani a La Gazzetta di Parma. "Abbiamo portato in questa scuola vestiti, scarpe, acqua, matite e persino una macchina da cucire. Già dal primo giorno del nostro arrivo abbiamo iniziato a fare volontariato e mio papà faceva divertire i bambini con i giochi di magia. Ma martedì è successo quello che non doveva accadere".

La famiglia, in sostanza, si è trovata coinvolta nella sanguinosa rivolta. Quando le bande armate si sono riversate per le strade, Reggiani e i suoi familiari sono corsi a rifugiarsi all'interno di un albergo, ma la situazione si faceva ogni minuto più pericolosa. Non c'era modo di andarsene e raggiungere l'aeroporto, che nel frattempo era stato chiuso. "Come suggerito dalla reception dell'albergo dove alloggiavamo, lo Hyatt Regency, ci siamo chiusi in camera e dalla finestra vedevamo la città buia e i fuochi. Purtroppo in tarda serata ci siamo accorti che anche la hall del nostro albergo era in fiamme. E abbiamo provato a uscire dalla camera, ma anche i corridoi erano pieni di fumo. Così siamo tornati nelle nostre stanze. E non sapevamo cosa fare".

Bloccati all'interno della costruzione, i nostri connazionali hanno dovuto prendere la più atroce delle scelte: uscire dalla finestra (si trovavano al quarto piano) e richiare la vita, oppure restare chiusi nella stanza e attenere di morire a causa del rogo. "Non potevamo scappare. Per impedire che il fumo entrasse in camera abbiamo bagnato le salviette e le abbiamo messe intorno alla porta. Una situazione terrificante. Così mi sono messo a gridare aiuto dalla finestra e un gruppo di ragazzi nepalesi si è accorto che il nostro albergo andava a fuoco", ha dichiarato Reggiani. "Avevamo molta paura ma non potevamo fare altro. Quei ragazzi hanno sistemato due materassi sotto le nostre finestre e ci hanno buttato una corda da aggiungere alle lenzuola, che avevo legato al letto. Eravamo a una quindicina di metri di altezza e non era certo semplice scendere giù, soprattutto per mio padre che ha 74 anni. Ma mi sono detto: o bruciamo vivi e ci buttiamo giù e proviamo a rimanere vivi".

Decisi a salvasi, Filippo Reggiani e i suoi familiari si sono calati dal quarto piano dell'hotel. Reggiani ha riportato una frattura a due dita. La madre, caduta sui materassi, ha perso i senti ma se l'è cavata con una distorsione alla caviglia. La piccola Matilde, seguendo le indicazioni del padre, è riuscita ad arrivare a terra del tutto illesa. Il padre di Reggiani, invece, ha sbattuto violentemente il viso, e si è rotto il naso. Cadendo, si è anche fratturato una gamba. La famiglia è stata assistita da alcuni giovani nepalesi, che li hanno accompagnati fino agli avamposti dell'Esercito. "Abbiamo incontrato anche una banda armata, ma questi ragazzi l'hanno allontanata dicendo che i turisti non si toccano", ha spiegato il 48enne. "I militari hanno capito che avevamo bisogno di cure e così a colpi di mitra per farsi strada tra i ribelli ci hanno accompagnato a un primo ospedale".

Un vero e proprio incubo, in cui tuttavia non

sono mancati la solidarietà e l'aiuto del popolo nepalese, come dimostra il racconto di Reggiani. La famiglia italiana è sempre rimasta in contatto con la Farnesina, che ha fornito tutto l'aiuto possibile.

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