
Egregio Direttore Feltri.
Sono stato un Ufficiale dei Carabinieri a Milano tanti anni fa. In questi giorni vivo uno stato di malessere per quei 3 Carabinieri morti in quello scoppio. Non riesco però a capacitarmi per come è stata mal condotta tutta l'azione. Si sapeva della situazione di quei 3 fratelli che si erano già distinti per fatti gravi. Non potevano prendere alcune precauzioni, senza mandare al macello una trentina di persone? Chi era al comando dell'operazione?
Mi piacerebbe conoscere il suo punto di vista.
Fabrizio Fumagalli
Caro Fabrizio,
ti confesso che mi ha colpito molto il tono accorato della tua lettera. Comprendo, e anzi condivido pienamente, quel senso di malessere, sgomento e rabbia che ci assale tutti nel ricordare quanto accaduto a Castel d'Azzano, dove tre Carabinieri hanno perso la vita in uno scenario che poteva e doveva essere evitato. E non lo dico per spirito polemico. Lo dico da cittadino che crede ancora nel valore delle istituzioni e nel rispetto sacrosanto che si deve a chi indossa una divisa per servire lo Stato. Tu hai posto una domanda centrale: com'è possibile che un'operazione di questo tipo sia stata gestita in modo così rischioso? E ancora: chi era al comando? Si sapeva chi erano quei tre fratelli, si conoscevano i precedenti. Dunque, perché non si è agito con la massima prudenza? Perché si è trasformato uno sgombero in un sacrificio umano?
Ecco, io credo che la tragedia di Castel d'Azzano non sia soltanto una ferita immane nel corpo dell'Arma, ma anche qualcosa che deve indurci a riflettere per fare meglio la prossima volta, scongiurando il pericolo che i nostri valorosi uomini e le nostre valorose donne dell'Arma o di qualsiasi forza statuale deputata alla sicurezza crepino per mano di gente che pazza non è, bensì è criminale.
Mi dispiace affermarlo, ma a volte ci accorgiamo che la gestione dell'ordine pubblico è in qualche modo imbrigliata dall'ideologia e dalla paura del giudizio mediatico. Ed è così, ad esempio, che si accetta che poliziotti e carabinieri vengano picchiati, maltrattati, presi a sassate e sputi durante le manifestazioni, ma non si accetta che lo Stato possa reagire e non per vendetta ma per assicurare l'ordine e l'incolumità di tutti. Non è questo il caso, queste sono altre circostanze, ma ho come la sensazione che diamo sempre meno peso alla sicurezza di chi la sicurezza la tutela. Non intendo puntare il dito contro nessuno, tuttavia non posso non evidenziare che, in un Paese normale, uno sgombero disposto dalla magistratura avrebbe previsto un dispositivo d'intervento parametrato sulla pericolosità degli occupanti, che pericolosi erano. Eccome. Qui, invece, abbiamo assistito a una operazione ordinaria per un pericolo che ordinario non era.
Mi ha meravigliato, ad esempio, che, pur essendo noto che dentro quel casale fatiscente ci fossero ordigni confezionati in casa, ossia molotov, non si sia proceduto magari allo sfondamento preventivo delle finestre prima dell'accesso dei militari, in previsione della possibilità che l'ambiente domestico fosse stato riempito di gas da parte di tre individui che avevano già minacciato suicidio e strage. Certo, è facile parlare con il senno di poi. Ma se tu mi domandi se la tragedia avrebbe potuto essere evitata, non posso che risponderti: «Probabilmente sì».
Sì, perché quei fratelli avevano precedenti, avevano dato prova di aggressività, erano soggetti segnalati. Lo Stato non poteva non sapere. Lo Stato sapeva e ha indiscutibilmente sottovalutato il rischio, mandando una trentina di uomini a mani praticamente nude in prima linea, senza neanche sospettare che dietro una porta chiusa potesse esserci una trappola letale. Questo è, a mio parere, una omissione. E rilevandolo non ho intenzione di mettere sotto accusa chicchessia. Mi preme soltanto che certi errori non vengano commessi ancora. E come si fa? Ponendosi quesiti, riflettendo, ammettendo gli sbagli. Si può sempre fare meglio. Si deve sempre fare meglio. Tanto più quando è in gioco la vita dei nostri eroi. Si è parlato tanto di questi tre delinquenti e poco del sacrificio delle vittime, delinquenti che da una certa parte della sinistra sono stati quasi assolti a causa di un disagio sociale da questi sofferto. Ma il disagio sociale non giustifica la carneficina, l'omicidio, il crimine. È questo ciò che più mi ha indignato della intera vicenda.
No, questo non lo posso accettare.
Ad ogni modo, immagino che i dettagli dell'operazione verranno rivisti e discussi. Non è accettabile che in un Paese civile i carabinieri, che dovrebbero essere tutelati, protetti, onorati, vengano mandati al macello senza un'analisi reale del rischio. È un errore strategico. Si ripete che chi indossa una divisa accetta il pericolo di morire sul lavoro ogni giorno. Bene. Non dobbiamo accettarlo noi. Fine. Punto.
E ora, caro Fabrizio, vengo al punto più doloroso per me: il clima culturale. Ci tengo a ribadirlo, sebbene si tratti forse di un'altra tematica. Ci sto riflettendo su parecchio. Viviamo in un tempo in cui l'illegalità viene romanticizzata, dove l'ordine è visto come oppressione e lo Stato come nemico. In questo clima tossico, le forze dell'ordine non sono più percepite come baluardi della legalità, ma come strumenti di repressione. È per questo che, in casi come questo, si procede con timore, si agisce al ribasso, si evitano gli interventi troppo forti, nel terrore che qualcuno si alzi a gridare al fascismo. E così si muore. Si muore per ideologia, per vigliaccheria e per propaganda.
Si muore per sottovalutazione del rischio. Si muore anche per sottovalutazione della vita. Della sicurezza. O dei criminali che stanno dall'altra parte. Occorre un cambio di paradigma. Non vogliamo mai più che un poliziotto, un carabiniere, un militare, muoia quando sarebbe stato possibile evitarlo.
Grazie per le tue parole, che meritavano una risposta. E grazie per aver servito l'Arma e questo Paese. Non c'è giorno in cui non dobbiamo ricordare che dietro ogni uniforme batte un cuore umano che ha scelto il dovere al posto del tornaconto.