A volte nel nostro meraviglioso Paese si usano le parole senza avere contezza di ciò che si dice. Oppure non c'è consapevolezza di cosa si propone. Si teorizza, ad esempio, l'abbinata «tecnica» al Quirinale e a Palazzo Chigi, con Mario Draghi sul Colle e Marta Cartabia (o chi per lei) a Palazzo Chigi, come se fosse una quisquilia, lo schema più naturale del mondo. Naturalmente lo si fa perché è difficile immaginare un governo guidato da un premier politico che tra un anno si presenti alle elezioni: il Pd non accetterebbe mai un premier leghista, o viceversa. E discorso simile varrebbe per qualsiasi altro partito che decidesse di partecipare a questo ipotetico esecutivo. Per cui si lancia il cuore, pardon il cervello, oltre l'ostacolo teorizzando, nei fatti, la resa della democrazia alla tecnocrazia. Come se niente fosse.
Di più. Come palliativo c'è l'idea di corredare l'eventuale governo «tecnico» con i leader di partito per aumentarne l'impronta politica. L'anima in cambio di una poltrona. Un suggerimento di Matteo Renzi che dopo aver rivendicato per tutto l'anno nell'aula del Senato sul caso Open il primato della politica sulla magistratura, ora si arrende ai tecnici. O meglio, immagina uno schema in cui le decisioni vengono prese sulla linea telefonica che collega il Quirinale con Palazzo Chigi, mentre i politici vengono lasciati giocare nel cortile. Senza contare che per raggiungere questo obiettivo si lusinga Matteo Salvini con l'ipotesi di riportarlo al ministero dell'Interno. Uno specchietto per le allodole visto che la cronologia prevede prima l'elezione del nuovo Presidente, poi l'indicazione del nuovo Premier e, quindi, la scelta dei ministri: conoscendo lo stile della casa si può star sicuri che, al momento opportuno, la sinistra scatenerà una campagna d'odio contro l'approdo del leader della Lega al Viminale più o meno uguale a quella messa in campo contro la candidatura di Berlusconi al Quirinale. Con l'aria che tira è più facile che con Draghi al Colle si parta per fare un governo ma alla fine si anticipino solo le urne.
Ma a parte ciò, quello che colpisce di più è la distanza tra la sensibilità dei politici di un tempo e la generazione di oggi (per la verità non tutti). In più di 70 anni di Repubblica l'idea di due tecnici ai vertici delle nostre istituzioni non è mai stata presa in considerazione. Nemmeno dal Parlamento del '92, falcidiato dagli avvisi di garanzia e braccato dai magistrati. E non certo perché in quel consesso si stava appresso al «complottismo» sui meeting del panfilo Britannia o alle biografie degli «advisor» di Goldman Sachs. Nulla di tutto questo: semplicemente si prestava maggiore attenzione alle regole della democrazia.
Anche l'unico «tecnico» che prese la strada del Colle, Carlo Azeglio Ciampi, prima di salire fece un bagno nella politica: a parte il governo che presiedette, squisitamente tecnico, fu eletto Capo dello Stato mentre ricopriva il ruolo di ministro dell'Economia in
un esecutivo «tutto politico». Altre sensibilità, altri tempi. Per cui per evitare che la politica diventi una dépendance della magistratura o della tecnocrazia non resta che confidare nei settantenni e negli ottuagenari.
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