«Non conosceranno Amsterdam». Oppure: «Non sentiranno più il mare, non vedranno più arrivare l’inverno». Dice così, Giovanni Palummieri, parlando dei due figli che gli hanno ammazzato. Ilaria aveva ventun anni, Gianluca venti. È da poco passato un anno dal giorno in cui Riccardo Bianchi, il fidanzato che Ilaria aveva deciso di piantare, uccise a coltellate Gianluca; poi andò da Ilaria, la sequestrò, la violentò per dieci ore e la strangolò. Accadde a Milano, tra il 22 e il 23 di giugno.
Verrà il giorno in cui Giovanni Palummieri si vendicherà: lo dice senza enfasi ma con determinazione. Ma questo appartiene al futuro, a quando Riccardo uscirà dal carcere o dal manicomio. Oggi questo padre senza più figli vuole raccontare la sua storia con lo Stato. Giovanni vuole che si sappia cosa succede «dopo», quando la cronaca ha spento le sue luci sull’ennesimo fatto di sangue, e al posto dei servizi dei telegiornali arriva la fredda burocrazia della giustizia. Vuole che si sappia cosa succede quando le troupe smettono di attaccarsi al citofono di casa tua, e tutta la tua vita passata e futura diventa il numero di un procedimento penale. I riconoscimenti dei corpi, «metta qui una firma», nella saletta dell’obitorio con gente che va e viene. I verbali delle autopsie che arrivano a casa, con i dettagli che un padre aveva deciso di non conoscere scritti nero su bianco. L’udienza preliminare, con l’assassino lì, a due passi, con gli occhi bassi: e i carabinieri che dicono al padre dei morti «si comporti bene». É il racconto di una burocrazia del delitto che trasforma un padre in «parte offesa», «come se mi avessero rubato la motocicletta o dato un pugno», e sembra tutelare più i colpevoli delle vittime. Fino allo sfregio finale, quello dei corpi mai più ridati. Ilaria e Gianluca sono ancora sotto sequestro. Non appartengono al loro papà ma alla macchina della giustizia. L’inchiesta è chiusa, non c’è più niente da scoprire: «Eppure i miei due figli sono ancora sotto ghiaccio al cimitero di Lambrate. Non mi hanno ridato nemmeno gli anelli che avevano addosso».
L’INIZIO
«Mi chiamarono dal commissariato dicendo di presentarmi da loro. «Perché, cosa volete?» «Non possiamo dirlo» «Se non mi dite perché, allora io non vengo». Telefonai ai mei figli, uno dopo l’altro, e non rispondevano. Allora andai sotto casa ed era pieno di auto della polizia. Feci per avvicinarmi e due ragazzi del quartiere, due che mi conoscono bene, mi fermarono: Giovanni non andare, è meglio se non vai. Allora cominciai a capire».
IL FIDANZATO
«Riccardo, il ragazzo di mia figlia, era uno scemo qualunque. Invece Ilaria era una fuoriclasse, una che faceva tre lavori per volta. Di solito nelle compagnie di giovani, sono le femmine a venire individuate un po’ col nome del loro ragazzo: lei è la ragazza di Tizio, l’altra è la ragazza di Caio. Invece Riccardo non contava niente, lo conoscevano solo come il ragazzo dell’Ilaria. Senza di lei lui non era nessuno. Così quando lei lo ha lasciato ha deciso di fargliela pagare».
IL TELEFONINO
Le carte dell’indagine, quelle che senza tanti riguardi hanno spedito a casa di Giovanni, raccontano un dettaglio che spiega tante cose. Sul suo telefonino, Riccardo aveva ancora il numero di telefono di Ilaria, ma sotto il nome «Ila Troia».
IL CORPO DI GIANLUCA
«Mio figlio pesava settanta chili. Avete in mente cosa vuol dire sollevare da soli un corpo morto di settanta chili? Riccardo Bianchi è un gracilino. Secondo la giustizia ha fatto tutto da solo. Ma io non crederò mai che dopo avere ucciso mio figlio sia riuscito a nascondere il corpo da solo. E so anche chi è stato ad aiutarlo».
IL DELITTO
Riccardo Bianchi decide tutto prima e si prepara accuratamente. Nell’ultimo mese, sul suo computer invece dei soliti siti porno fa delle ricerche usando le parole chiave «abuse» e «brutal», che lo portano a vedere e studiare trattamenti identici a quello che riserverà a Ilaria. Prima però deve uccidere Gianluca, per procurarsi le chiavi dell’appartamento dei ragazzi. Lo invita a uscire il mercoledì sera. Esce di casa con lo zaino e con il coltello. Per essere sicuro di prendere l’amico alla sprovvista passa la sera a chiacchierare con lui, poi lo accoltella e lo mette nel baule della macchina. Gli prende le chiavi di casa, sveglia Ilaria e mentre lei apre gli occhi le dice: «Ho ucciso tuo fratello». Poi comincia l’inferno.
IL RICONOSCIMENTO
«Mi fecero andare all’obitorio di piazzale Gorini. C’era una stanza con gente che entrava e usciva, tirarono fuori i corpi da dietro un vetro e mi chiesero se riconoscevo i miei figli. Allora, mi dissero, deve firmare questo modulo».
LE CARTE
«Ho nominato un avvocato, le carte del processo le aveva tutte lui. Un giorno mi arriva a casa una busta con l’intestazione della Corte d’appello. Purtroppo l’ho aperta». Dentro c’è scritto per filo e per segno come è stato ucciso Gianluca, e per quante volte e per quante ore è stata violentata Ilaria, «cagionando alla stessa sofferenze particolarmente dolorose», e in che modo è stata alla fine soffocata.
L’ANELLO
«La mamma dei mie figli era morta un anno prima che me li uccidessero. Il suo anello di fidanzamento l’avevo regalato a Ilaria che la portava al collo. L’aveva al collo anche il giorno in cui Riccardo l’ha uccisa. E Gianluca aveva la fede nuziale di sua mamma. Ho chiesto che mi venissero restituiti ma fino ad oggi non c’è stato niente da fare»
L’UDIENZA
«Il giorno dell’udienza preliminare mi sono presentato in tribunale. Pensavo di vedere Riccardo in gabbia, o almeno ammanettato, in mezzo ai carabinieri. Invece me lo sono ritrovato nella mia stessa stanza, seduto a pochi passi da me. Come lo guardavo? Come si guarda uno che ti ha ucciso i figli. Allora i carabinieri sono venuti da me e mi hanno detto che dovevo stare buono».
I CORPI
«Mi hanno prestato i corpi di Ilaria e Gianluca per fare il funerale, poi se li sono ripresi e non me li hanno più ridati. L’ultima volta che ho provato a chiederli, mi hanno risposto che dovevo far fare una istanza all’avvocato. Allora, gli ho detto, con voi ho chiuso. Dicono che se proprio voglio mi possono dare il permesso di seppellirli. Ma io non li voglio mettere sotto terra. Io li voglio cremare e mettere in una stessa urna, perché voglio che stiano insieme, e li voglio mettere accanto alla loro mamma. Dicono che non posso: se vuole, signor Palummieri, li può seppellire, altrimenti ce li teniamo noi. Ma cosa vogliono ancora scoprire dal corpo dei miei figli? L’inchiesta è finita, non c’è niente da capire, Riccardo ha confessato. Il pubblico ministero ha scritto nero su bianco come sono stati uccisi. E allora? Io credo che i corpi di Ilaria e Gianluca appartengano al loro papà, all’uomo che li ha imboccati e li ha lavati, e non allo Stato. Invece da un anno me li tengono sotto ghiaccio». Dopo la richiesta di rinvio a giudizio, la competenza sui corpi è passata dalla Procura al giudice preliminare.
L’ASSASSINO
Il prossimo 8 luglio ci sarà il processo con rito abbreviato a Riccardo Bianchi. L’avvocato ha depositato una perizia secondo cui l’imputato era incapace di intendere e di volere al momento dell’omicidio. Le intercettazioni dopo l’arresto raccontano che già poche ore dopo il delitto Riccardo progettava di farsi passare per pazzo.
PERCHÉ
«In questo anno mi sono chiesto
tante volte: perché è successo a me? Non trovavo una risposta. Poi è uscito un film dove il protagonista si fa la stessa domanda e si risponde: è successo a me perché sono capace di sopportarlo. Forse è la risposta giusta».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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