Brad Pitt, star di Hollywood e marito di Angelina Jolie, considerato tra gli uomini più facoltosi del pianeta (patrimonio coniugale stimato in 172 milioni di sterline), intervistato dal giornale inglese The Sun , se n’è uscito con una frase terrificante: «I soldi non bastano mai». Un luogo comune che, proprio perché tale, contiene una verità innegabile. Schopenhauer, filosofo tedesco nato sul finire del ’700, disse qualcosa di simile in un suo celebre aforisma: «La ricchezza assomiglia all’acqua di mare: quanto più se ne beve, tanto più si ha sete».
Ma anche questo motto non era nuovo. Infatti, moltissimi secoli prima dell’intelligentone teutonico, un poeta latino, Giovenale, osservò: «Quanto più i quattrini aumentano, tanto più ne cresce la voglia». Quindi, sul concetto espresso dall’attore pieno di denaro, eppure insoddisfatto della quantità del medesimo in suo possesso, si può essere d’accordo.Almeno in teoria.Ma, in pratica, le parole pronunciate da Pitt hanno stimolato un dibattito, non privo di accenti polemici, che sembra appassionare mezzo mondo.
Sarà perché la crisi economica non accenna ad andarsene, sarà perché molta gente è in bolletta più del solito, sapere che un signore, dall’alto di 172 milioni di sterline (220 milioni di euro), sostiene di non aver denaro a sufficienza fa un certo effetto. Ovvio. La discussione infuria. Anche se l’opinione pubblica riconosce alla coppia in questione di essere generosa, in quanto impegnata in campo sociale, pronta alla beneficenza, titolare di una fondazione che ha elargito fior di milioni ai bisognosi.
Ciò che scalda gli animi è il seguente eterno quesito. Se l’uomo ( e la donna) non è mai contento di quanto ha, significa che nemmeno la ricchezza rende felici? Scontata la risposta: figuriamoci la miseria. In Italia poi, dove ha vinto la Controriforma e ha trionfato per decenni il comunismo, impregnando la cultura popolare di idee sbagliate ( «il denaro è lo sterco del diavolo », «dietro ogni grande ricchezza c’è un furto »), si assiste addirittura a una riaffermazione del pauperismo. Alcuni giorni fa, il quotidiano cattolico Avvenire ha tessuto l’elogio della povertà che renderebbe tutti sensibili, solidali, sobri, attenti alle esigenze del prossimo. Insomma, più umani. La Stampa di Torino, per fare un altro esempio, ha titolato così un reportage ferragostano da Capri: «La regina delle vacanze si scopre più povera ma bella». Il sommario spiega: «Chi veniva qui per esibirsi è scomparso, forse spaventato dalla Finanza. Tornano i vecchi riti e i vecchi look, e ora bisogna riportare la classe media».
Indubbiamente il benessere diffuso aumenta la volgarità, la quantità dei rifiuti, contraddicendo la massima di Bacon: «Il denaro è come il letame, che non è buono se non è sparso». Ma è altrettanto indubbio che la società - non solo la nostra - vive di contraddizioni. Negli anni Cinquanta, alla vigilia del boom economico, la maggioranza degli italiani aveva le tasche vuote e tanta speranza in cuore. E chi rammenta quell’epoca ne ha nostalgia, giura che allora ci fosse più serenità, nelle famiglie occorreva poco un pollo arrosto, una fetta di panettone a Natale- a garantire letizia e persino gioia.
C’era chi si beava a dare un’occhiata alle vetrine di negozi inaccessibili. Fantasticava. Faceva progetti. Ma questi sono scherzi della memoria che, essendo selettiva, recupera soltanto i ricordi più gradevoli, quelli legati ai piaceri (pochi) della giovinezza.
La realtà era ben diversa e per nulla addolcita dalla mancanza di mezzi. Al contrario, dominava la tristezza, e le giornate erano lunghe e faticose, non esisteva la settimana corta. Il bagno era un lusso, i caloriferi pure, due vestiti nell’armadio, zero elettrodomestici, sei persone in un bilocale. Il televisore? Roba da ricchi, come l’automobile e la moto. Già la bicicletta era uno status symbol. Piatto serale, la minestra. Poi a letto. La scuola, nel senso degli studi superiori, era riservata alla borghesia. Ecco, a grandi linee, queste erano le delizie della povertà, che non erano una eccezione, ma la regola.
Ora, come si possa rimpiangere quel periodo della nostra storia, ammantandolo di retorica, francamente è incomprensibile. I «mala tempora currunt » da millenni, ma quelli andati erano peggiori del presente. Invocarne il ritorno è una follia. Guardare con disgusto i quattrini? È un esercizio ipocrita più che snobistico. E auguriamoci che il benessere, nonostante lo spread, non ci abbandoni.
Intanto, riflettiamo con Rousseau: «Il denaro che si possiede è strumento di libertà; quello che si insegue è strumento di schiavitù ».
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