E' un po' come accade in un cortocircuito. La spinta riformatrice del governo nella Pubblica Amministrazione e il suo paradosso: una classe di dipendenti pubblici ostili al "digitalismo reale". La storia, questa storia, si consuma tra i banchi dell'istruzione italiana. Al centro un santissimo buono da 500 euro a disposizione di ogni singolo docente da spendere per la sua formazione. Il "come" e il "dove", purtroppo, sono ancora da definire. Ecco il nocciolo del problema. Ogni singolo professore con questo intervento ha a disposizione la cifra per investire in cultura e non ci sarebbe nulla di male in questa operazione, se non fosse soffocata da uno statalismo dilagante. L’ennesimo colpo inferto dalla solita burocrazia italica. Tutto parte da una mail. Una lettera elettronica, smart, veloce, ma che rappresenta solo l'inizio di un calvario che durerà mesi. Prima cosa l'identità digitale. Qualcosa che il docente tipo, sulla sessantina, con anni di esperienza alle spalle non riesce a comprendere. Insomma, l'insegnante che da una vita siede a una cattedra si vede spiazzata e quasi rinuncia per partito preso. Ti dirà: "Adesso basta. Renzi ci prende in giro". Ma non è la supercazzola renziana che ti sorprende. E' la politica del governo che ti lascia basito. E' questa pratica che parla di inefficienze che preoccupa. La stessa paura che scopri qualche giorno dopo passando per una delle tante poste disseminate sul territorio nazionale, addette alla certificazione digitale del singolo professore. L'alieno, quello che pensa e scrive analogico, e che purtroppo è in difficoltà. La stessa persona che ha lavorato una vita sui libri di carta e che fatica di fronte a una lavagna elettronica. Come detto, te li trovi in fila uno dietro l'altro all'ufficio postale, manco fossimo nella Mosca sovietica. Uno scenario tremendo, triste, sulla soglia dell'umiliazione. Sono tutti in cerca di qualcosa. Qualcosa che suona come un diritto. Hanno uno dei salari più bassi d'Europa e non rinunciano a questa strana riconoscenza dell’esecutivo. Ma il giocattolo non funziona e l'aria, di fronte a un cartello che indica la fila da sostenere, si surriscalda. "Ma chi ce lo fa fare", sbotta una professoressa di lettere che insegna a quella che fu la scuola media. "Quando ho iniziato a lavorare non avrei mai pensato di dover sopportare tutto questo". E' una rivolta, seppur timida, contro lo Stato. Il dipendente pubblico, il fannullone per eccellenza, che si unisce al coro di chi non è mai stato molto fiducioso nei confronti della Megamacchina pubblica e dirigista, tanto per scomodare uno come Max Weber. È un mutante e questa è una novità assoluta. E' il metodo a essere sbagliato spiega chi del liberalismo e della sua lotta contro l'economia pianificata ci ha passato la vita. Ormai il tempo della crisi del '29, della ricetta keynesiana, delle grandi guerre, della guerra fredda e della paura socialista sono sepolti. Ma i tentacoli dello Stato-leviatano sono pronti a tornare di moda. E' utile quindi difendere quello Stato-minimo che, al leviatano, si contrappone. Intanto qualcuno ti confessa che dietro la cosiddetta carta del docente e la sua inefficiente allocazione ci sia la volontà di scoraggiare gli insegnanti. E ti prendi un po' di tempo per capire cosa accadrà quando, dopo ore di moduli e code, ti sarà riconosciuta l'abilitazione a spendere. Siamo di fronte a uno scenario malato e che, di certo, non risolverà il principale problema degli insegnanti: uno stipendio da fame. Poi, tanto per completezza, è il caso di affrontare l'altro grande problema: il "dove" e il "come" si può usufruire dei 500 euro. Ed è qui che viene il bello. A poche ore dall’entrata in vigore la carta del docente è già un fallimento. I soldi possono essere spesi in negozi e catene di elettronica, in scuole di inglese o di informatica, o librerie ad esempio. In cinema, teatri, musei. Peccato che molti di loro, negozi e luoghi di intrattenimento, non ne sappiano ancora nulla. Ricordate le file infinite di fronte alle poste? Bene, stessa cosa: tutta colpa dello statalismo direbbe qualcuno. E nonostante il ministero della Pubblica Istruzione chieda pazienza le cose non vanno affatto bene. Dal “Santa Giulia” di Brescia al “Mambo” di Bologna, ai musei Vaticani di Roma, fino al museo della cappella “San Severo” di Napoli, alla richiesta di informazioni di un docente che vuol capire se potrà generare un buono acquisto per fare la visita la risposta è una sola: “Non ne sappiamo nulla”. Fino a qualche giorno fa i docenti che visitavano una mostra o che andavano agli Uffizi dovevano farsi fare una ricevuta fiscale che dovevano presentare alla scuola di servizio per comprovare l’utilizzo dell’importo dei 500 euro entro una data fissata dal Miur. Ora è tutto cambiato. Il docente dopo essersi munito dell’identità digitale deve collegarsi all’indirizzo www.cartadeldocente.istruzione.it per creare un buono. Un mucchio di scartoffie. Il fatto è che parecchi musei non conoscono la nuova modalità di spesa per i docenti, altri non intendono accedere a questa piattaforma. Basta fare un giro di telefonate per scoprire che la vita dei prof e dei maestri sarà dura d’ora in poi e che il processo sarà molto lento. Insomma, senza scartare a priori la buona volontà del governo, potremmo asserire che il potere pubblico causa per sé inefficienze anche tra i banchi di scuola.
Perfino alle poste lo sanno e non resta che raccontare quello che Patrizia, insegnante da una vita, dice - stanca - mentre riempie i moduli per ottenere il bonus: "Dovrebbero tagliarci le tasse ed evitare misure inutili come questa. Quasi la metà del mio stipendio va allo Stato”. Questa sì è una vergogna.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.