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Bruxelles prepara la "cura Berlusconi" per il Renzi ribelle

Il premier è in un cul de sac. Se accetta i diktat di Bruxelles divorzia dal Paese. Se divorzia da Bruxelles, rinnega coloro che gli hanno permesso di arrivare al Potere

Bruxelles prepara la "cura Berlusconi" per il Renzi ribelle

L'ultimo bollettino della guerra tra Matteo Renzi e l'Unione Europea riporta una battuta del presidente della Commissione, Juncker, che equivale più o meno ai sorrisetti con cui la Merkel e Sarkozy liquidarono Silvio Berlusconi quattro anni fa. «Quella di Renzi è una tipica esuberanza giovanile», è la frase a cui il capo della burocrazia europea si è lasciato andare giorni fa, ridacchiando, con alcuni parlamentari del Ppe. Parole intrise d'ironia come i sorrisetti, appunto, della coppia Merkel-Sarkò al vertice di Cannes. Un modo per dire che il premier italiano abbozzerà o sarà costretto ad abbozzare. Voglia o non voglia. E, di fronte a questo atteggiamento arrogante di un personaggio che siede su quella poltrona solo perché è un fedele servitore di Berlino, è difficile trattenere un moto di solidarietà verso Renzi, al netto delle sue infinite colpe. In fondo il premier italiano si ribella a una politica europea, a una linea economica, a un modello di sviluppo che favoriscono solo alcuni Paesi, innanzitutto la Germania, e ne penalizzano altri, a cominciare dall'Italia. Succede sull'austerity, sulla flessibilità di bilancio, e ora anche sull'immigrazione e sulla politica per le banche. Parliamo del famigerato bail-in che ha messo sul lastrico i risparmiatori di Banca Etruria. Il nuovo vocabolario renziano riecheggia le espressioni del Cav di un tempo: dalle filippiche contro «gli euroburocrati», al rifiuto della politica «con il cappello in mano». Giudizi taglienti, palesi. Ma chi li pronuncia oggi ha fatto finta di non vedere per molto tempo. Troppo. Ed è proprio sull'elemento temporale che il moto di solidarietà verso quel ragazzino impertinente, per usare l'immagine irriverente di Juncker, si spegne. Perché c'è qualcosa di non detto che storpia nei suoi discorsi. C'è, soprattutto, un'ipocrisia inaccettabile che li rende meno condivisibili. Dice Renzi: l'Italia non può accettare di essere «telecomandata» da altri. Giusto. Ma il problema non è solo (...)(...) chi usa «il telecomando», cioè la Merkel, che punta a fare gli interessi del suo Paese in una Ue che resta - ne sono consapevoli tutti, a parte gli struzzi di casa nostra ubriachi di retorica europeista - una sommatoria di interessi nazionali dove vige la legge del più forte. Il problema, semmai, è anche chi in passato si è fatto «telecomando» di quelle volontà e, magari, lo farà, al di là delle persone, in futuro. E, una rilettura di quella storia, quella del 2011, al di là di ogni ipocrisia, è indispensabile se chi governa il Paese ora vuole essere all'altezza del presente e, soprattutto, se vuole costruire per il futuro un «sistema Italia» capace di farsi rispettare in Europa. Questa è la cruna dell'ago per cui bisogna passare. Anche perché non sfuggono le analogie tra oggi e ieri. Un presente su cui si staglia l'ombra evocata ieri dalle parole di Draghi: «La cospirazione delle forze dell'economia globale». Ma se il timore del riproporsi della «grande crisi» vale per tutti, per l'Italia è ancora più drammatico. Oggi come ieri, nel nostro Paese c'è un governo che si sente penalizzato da una politica di Bruxelles che privilegia gli interessi di altri (Berlino), rispetto ai nostri. Allora era per la politica economica (austerità o sviluppo) con cui uscire dalla crisi. Oggi, invece, il braccio di ferro avviene su argomenti non meno importanti: tenuta del sistema bancario e immigrazione. Oggi come ieri, c'è chi vuole escludere l'Italia dai Paesi che decidono (sempre Berlino) e magari immagina due Europe, una più forte e una più debole (ancora Berlino). Oggi come ieri, la guerra si svolge sui mercati finanziari: all'epoca contro l'Italia fu utilizzato il famigerato spread, innescando una forte ondata speculativa con un'improvvisa immissione sul mercato dei titoli di Stato italiani detenuti dalla Deutsche Bank (cosa fu se non un atto di guerra?); in queste settimane, invece, la speculazione internazionale ha preso di mira il nostro sistema bancario. Oggi come ieri, se Roma non si piega (sarà la storia dei prossimi mesi) ci sarà il tentativo di insediare a Palazzo Chigi un governo più incline a seguire i desiderata del Paese egemone della Ue (per l'ennesima volta Berlino): il Financial Times lunedì scorso ha già pubblicato l'epitaffio per Renzi (allora lo scrisse anche per il Cav) e il nuovo tema dominante sui media è l'isolamento del premier, più o meno il trattamento riservato a Berlusconi quattro anni fa. «La storia del 2011 si ripete, eccome! - osserva Luigi Marino, senatore centrista gran difensore della Boschi - Stanno sottoponendo Renzi, si fa per dire, alla stessa cura del Cavaliere. Fra un po' entrerà in ballo anche la magistratura. Matteo ha solo la fortuna che Firenze non è Milano!». «Anzi, per dirla tutta - gli fa eco il senatore dem Fornaro - è peggio del 2011. C'è una tale quantità di soldi in giro per il globo che può essere utilizzata per comprare ogni cosa. Le nostre banche fanno gola. E chi si oppone, a cominciare da Renzi, è nel mirino». Un'atmosfera che l'ex-ministro Tremonti descrive con un aneddoto: «Quando un premier si insedia - racconta - riceve dal suo predecessore tre lettere con i consigli per i momenti difficili. Nella prima c'è scritto: scarica le colpe sul precedente governo. Nella seconda: scaricale sul Parlamento. Nella terza, che Renzi sta per aprire, c'è scritto: prepara le tre lettere». A guardar bene, rispetto ad allora, ci sono solo due differenze. «Oggi c'è un Draghi - osserva in un momento di sincerità il piddino Francesco Boccia - che ha le mani più libere: se avesse potuto dispiegare le sue politiche nel 2011 non avremmo avuto lo spread a 500 punti e il governo Berlusconi non sarebbe caduto». Inoltre c'è un capo dello Stato, Mattarella, che ha dimostrato per ora di essere un vero notaio: nella primavera del 2011, con Berlusconi ancora in sella, l'allora presidente, Giorgio Napolitano, aveva già cominciato a sondare cancellerie europee e politica italiana sul nome di Mario Monti per Palazzo Chigi. Individuò una sorta di maresciallo Petain, per usare un'iperbole giornalistica. Il messaggero del verbo di Berlino, che si presentò con un biglietto da visita suggestivo: «Sono considerato il più tedesco tra gli economisti italiani e per me il giudizio è motivo di vanto». I risultati della sua ricetta si leggono ancora sulla pelle degli italiani. «Se ci fosse stato il Nap ancora al Quirinale - ridacchia Loredana De Pretis, capogruppo di Sel - starebbe già facendo il cast per il successore di Renzi».Ecco perché, se Renzi vuole essere credibile davvero nella sua battaglia contro la Ue matrigna, dovrebbe squarciare il velo dell'ipocrisia che ancora circonda le vicende di quegli anni (solo il teorizzare che Berlusconi cadde per il caso Ruby è un'offesa all'intelligenza). Quest'opera di verità potrebbe rivelarsi una polizza d'assicurazione per il suo futuro. Ma non lo farà perché è figlio di quel mondo che ora, in un momento disperato, comincia a disprezzare. È in un cul de sac: se accetta i diktat di Bruxelles divorzia dal Paese, visto che dovrà rimangiarsi molte cose che ha promesso; se divorzia da Bruxelles, Napolitano in primis, rinnega coloro che gli hanno permesso di arrivare al Potere.

Il Re è nudo. Augusto Minzolini

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