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C'è il premier dietro i frondisti

C'è il premier dietro i frondisti

«Acunzo, Aprile, Cappellani, Del Grosso, Dieni, Fioramonti, Frate, Galizia, Grande, Lapia, Romano, Vacca, Vallascas...». Non è la squadra titolare dei Cinque Stelle più due riserve. Sono i deputati che non hanno restituito neppure un euro del proprio stipendio alle casse del movimento. Poi ci sono i senatori e sugli equilibri politici pesano ancora di più. Eccoli: «Anastasi, Bogo, Ciampolillo, Di Marzio, Di Micco, Giarrusso, Lorefice». A scandire i nomi con una certa foga è Pierluigi Paragone, ormai in odore di eresia e sempre più ai margine, al confine dell'espulsione. Quello di Paragone è una sorta di contropiede, attacca per ribaltare l'azione e difendere le ragioni di chi si sente ingiustamente sotto accusa. Non usa la penna per la sua denuncia, ma un video messaggio su Facebook, rispolverando il suo passato da giornalista televisivo. Rivela così la disgregazione di ciò che un tempo era la «rivoluzione» grillina. «In questa lista - dice - ci sono ministri e presidenti di commissione. Mi sono rotto le scatole della gente che predica bene e razzola male». Aggiunge: «Rischio di essere espulso dal gruppo perché ho detto no. Ai probiviri piace molto il rispetto delle regole, ma non fanno niente verso chi ha pagato zero. Io sono uno dei pochi perfettamente in regola. Il capo politico dov'è? Non lo sapeva o ha fatto finta». C'è spazio anche per un affondo, fuori lista, contro Fabiana Dadone, ministro per la Pubblica amministrazione: «Dovrà giudicarmi ma è in conflitto di interesse perché non si può essere proboviro e ministro e soprattutto le sue restituzioni sono ferme a 5 mensilità».

Il discorso di Paragone sembra un atto di accusa contro Luigi Di Maio, in realtà in controluce mostra qualcosa di più. È, magari senza volerlo, la mappa di quello che sta avvenendo al governo e nei Cinque Stelle. Quei nomi non indicano soltanto chi non ha rispettato il contratto firmato con Casaleggio al momento della candidatura e da rispettare in caso di elezione alla Camera o al Senato. Quei nomi sono la quinta colonna di Giuseppe Conte. È il partito ancora sottotraccia del premier. Non rispondono più a Di Maio ma all'avvocato del popolo. Sono il segno di una scissione lenta, che piano piano sta emergendo. Non a caso nella lista c'è Lorenzo Fioramonti, ministro della Pubblica istruzione che a Natale si è dimesso per i pochi fondi che la manovra economica ha destinato a scuola e università. Fioramonti ha lasciato il governo, ma è tutt'altro che un avversario del premier. Il suo rapporto con Conte è forte e strategico. L'unica cosa che l'amico Giuseppe può rimproveragli è la fretta del suo addio. Conte preferiva scoprire le carte a gennaio, magari dopo le elezioni regionali, Fioramonti non ha voluto però rinunciare al bel gesto. Stefano Buffagni, sottosegretario grillino alle Attività produttive, lo incalza: «Se ora Fioramonti sogna di fare il capo politico, o lanciare il suo movimento verde sono fatti suoi legittimi, ma sono certo che se uscirà dal Movimento si dimetterà da parlamentare». Buffagni sa benissimo che non sarà così.

Il piano è un altro. L'idea è spostare la pattuglia parlamentare del premier fuori dal gruppo pentastellato. Il primo passaggio è nel misto, poi quando i numeri si saranno consolidati ecco la nascita del primo embrione di partito post grillino. Il distacco avverrà in nome della trasparenza. Chi non paga non lo fa per avarizia, ma è una scelta politica. Il conto dove dovrebbero finire tutti gli extra stipendi è gestito da un triumvirato: Di Maio più i capigruppo di Camera (Gianluca Petrilli) e Senato (Davide Crippa). La ratio è gestire in modo razionale quei fondi e non avere ombre sul Restituition Day. Questa perlomeno è la versione di Casaleggio. I parlamentari morosi lamentano invece l'oscurità del conto. Non si sa nulla. Non ci sono comunicazioni. Tutto è nelle mani del circolo ristretto di Di Maio.

Ecco. È proprio il capo politico il punto della discordia. Di Maio non si fida più di Conte. Lo vede come il veleno che sta sfibrando il Movimento. Si è accorto che l'avvocato del popolo non solo è un uomo di poltrona, ma sta pure lavorando per traghettare i grillini verso un nuovo contenitore di sinistra in accordo con il Pd di Zingaretti. È la scommessa su un equilibrio politico basato su una logica binaria: da una parte Salvini e dall'altra gli anti Salvini. Beppe Grillo sta sponsorizzando questo scenario. Casaleggio e Di Maio no. Il loro progetto è dare ai Cinque Stelle un ruolo di ago della bilancia, pronti ad allearsi con chi vincerà le prossime elezioni e comunque pronti a occupare quel centro in teoria affollato di pretendenti, da Renzi a Calenda o a chissà chi altro, ricco di fermento ma al momento povero di voti. Paragone invece resta vicino alle posizioni di Alessandro Di Battista, riserva grillina, un tempo alternativo a Di Maio, ma da sempre diffidente verso Conte.

L'impressione è che ormai le cinque stelle non siano altro che almeno cinque pezzi di un sogno in frantumi. Non è vero che uno vale uno. La morte di Gianroberto Casaleggio, fondatore, ideologo e anima di questa avventura, è l'evento che ha cambiato tutto.

Cosa accadrà nel 2020? Leggere il futuro nelle stelle è un azzardo senza senso.

Il fatto certo da cui partire è questo: il Movimento è in regressione e uno tra Conte e Di Maio ormai è di troppo.

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