Cronache

Il caso Palamara

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di In vece del popolo italiano. Percorsi per affrontare la crisi della magistratura (Cantagalli) a cura di Alfredo Mantovano

Il caso Palamara

Immaginiamo – l'analogia viene facile non solo per il Palazzo del Senato che ci ospita – che nel giro di pochi giorni 200 deputati e 100 senatori, un terzo del totale delle assemblee elettive, si dimettano, e con loro il presidente di uno dei due rami del Parlamento: la questione sarebbe risolta con subentri ed elezioni suppletive per i seggi rimasti vacanti? O non seguirebbe con immediatezza lo scioglimento della Camera e del Senato, e quindi un dibattito, nelle istituzioni e nel Paese, sulle ragioni che hanno determinato la crisi? Alla fine della primavera 2019, non un secolo fa, il Consiglio Superiore della Magistratura è stato interessato dalle dimissioni, più o meno spontanee, di un terzo dei suoi componenti togati, di uno dei suoi membri di diritto, il Procuratore generale della Cassazione (le cui funzioni ovviamente non sono soltanto quelle di comporre il CSM), mentre il suo vicepresidente – che è anche presidente della sezione disciplinare – ha presentato dichiarazione di astensione da taluni giudizi disciplinari.

Il Consiglio non si è sciolto; il suo plenum è stato reintegrato in parte con i subentri che erano possibili attingendo ai primi dei non eletti, in parte con una elezione suppletiva, all’inizio di luglio 1, in parte con la nomina del nuovo Procuratore generale della Cassazione, avvenuta a metà novembre, mentre l’elezione suppletiva per coprire un ulteriore seggio resosi vacante è fissata per l’8 dicembre. In tal modo il CSM si è rivelato un organo costituzionale – come talune fattispecie di reato – “a formazione progressiva”. Vi è un profilo più grave: il caso esploso è stato archiviato rapidamente fra i media e nell’attenzione generale, senza una analisi delle cause e senza una conseguente riflessione pubblica sui rimedi per evitare il ripetersi di vicende simili.

La stessa rubrica conferita a quanto accaduto ha orientato verso l’attenuazione dell’interesse: si è parlato di “caso Palamara”, come se fosse coinvolto un solo magistrato, o i pochi a lui legati. È come se, mutatis mutandis, nel 1992 invece che di Tangentopoli si fosse parlato del “caso Mario Chiesa”. Sarebbe più proprio parlare di “caso CSM”: quel che è emerso – se pure per lo spazio di un mattino – è ciò che tutti sanno, e sapevano, in termini di attribuzione dei posti direttivi, di gestione della formazione, di giudizio disciplinare, di peso delle correnti, di straripamento della giurisdizione in ambiti non propri.

E in termini di ricadute che questo ha nella quotidiana amministrazione della giustizia. Non è – con tutta evidenza – questione di etichetta da adoperare: è questione da affrontare una buona volta nella sostanza in modo serio, rispettando l’equilibrio fra istituzioni, ma senza ulteriori rinvii. Un esito scontato, qualunque fosse stata l’espressione del voto. Le dimissioni di due consiglieri eletti per tale categoria hanno quindi comportato una prima indizione di nuove elezioni.

In vece del popolo italiano

Tale ulteriore turno elettorale si è reso necessario perché un consigliere eletto fra i giudicanti nel merito ha presentato le sue dimissioni qualche settimana dopo gli altri consiglieri dimissionari; non è stato possibile il subentro dell’unico candidato non eletto, a sua volta non subentrato in precedenza, perché costui è stato dissuaso dal suo stesso gruppo di appartenenza, essendo pendente a suo carico un procedimento disciplinare.

Non è la prima volta che accade qualcosa di grave nella magistratura e nessuno reagisce. Pensiamo – per fare un esempio certamente in scala, ma non proprio marginale – a quanto successo un paio d’anni fa, a proposito del concorso per l’accesso alla magistratura: si è parlato di “caso Bellomo”, dal nome del dott. Francesco Bellomo, consigliere di Stato coordinatore di uno dei corsi di preparazione più frequentati dai partecipanti alle prove, ma è mancata una riflessione sulle modalità attraverso le quali si diventa giudici in Italia, che sarebbe stata più interessante rispetto ai gossip che hanno attratto l’attenzione mediatica sulla vicenda. Lo scarno dibattito prima dell’estate si è concentrato sulle norme migliori per votare il futuro CSM – sorteggio, uninominale, rotazione nella carica di consigliere –, come se il problema coincida con le regole di elezione dei togati, e non consista in- vece in un sistema ideologizzato e spartitorio che condiziona in negativo l’amministrazione della giustizia. Quale attinenza ha la modalità di elezione del CSM con la pesante situazione di una magistratura italiana, che è attraversata da una quantità senza precedenti di arresti e di indagini con gravi accuse a carico di propri appartenenti, da Torino a Trani, da Lecce a Palermo, da Gela a Roma? Al di là delle specifiche vicende, per ciascuna delle quali vale la presunzione di non colpevolezza degli imputati, l’insieme è quello di un preoccupante abbassamento di tenuta, etica e professionale.

Lo confermano tre numeri abnormi: il numero degli indennizzi liquidati per ingiusta detenzione, il numero delle prescrizioni che maturano, talora anche per reati gravi, il numero dei procedimenti che partono con clamore, incidono in settori rilevantissimi della vita nazionale e si concludono con un nulla di fatto, con danni incalcolabili prodotti nel frattempo sulle persone, e talora anche sulla realizzazione di opere pubbliche.

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