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"Che fai, mi cacci?" Giuseppe tentato

"Che fai, mi cacci?" Giuseppe tentato

Dieci anni dopo, la deriva finiana dello scontro frontale tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi non promette niente di buono. L'ex premier, infatti, ieri si è lasciato sfuggire un «se vuole mi cacci pure» che a molti ha ricordato quel «che fai mi cacci?» che nel 2010 sancì di fatto la rottura tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. E che solo qualche mese dopo avrebbe portato alla fuoriuscita dal Pdl prima e dal governo poi dell'allora presidente della Camera.

D'altra parte, oggi come allora, l'incomprensione non è tanto politica quanto umana e personale. I due mal si sopportano e, soprattutto, fallito il tentativo di raccogliere voti provenienti dal Pd, il leader di Italia viva deve puntare tutto sull'elettorato moderato e cattolico. È del tutto evidente, quindi, che un eventuale rafforzamento dell'immagine e del ruolo di Conte va esattamente a cozzare con l'operazione centrista su cui sta lavorando Renzi. Che, dunque, ha deciso di picconare il governo giorno dopo giorno, ben consapevole che qualunque cosa succederà nei prossimi mesi le elezioni anticipate sono l'ultimo e il più improbabile degli scenari. Con il referendum confermativo del 29 marzo e i tempi tecnici necessari a riscrivere i collegi elettorali nel caso più che probabile che vincano i «sì», di fatto prima di giugno non sembrano vedersi spiragli concreti per un ritorno alle urne. Che poi è la ragione per cui non solo Renzi, ma anche lo stesso Conte ha deciso di rispondere a tono alle provocazioni dell'ex premier.

Quel che è certo è che in una giornata in cui si valutano tutte le possibilità sul tavolo, il presidente del Consiglio continua a ipotizzare la strada della verifica: trovare un terreno di scontro meno scivoloso e più comprensibile della prescrizione e mettere Renzi davanti alla scelta di votare o no la fiducia. Con l'obiettivo di sostituire al Senato la pattuglia di Italia viva con un gruppetto di cosiddetti responsabili. Non è un caso che in queste ore Palazzo Chigi stia monitorando con una certa insistenza i movimenti in corso a Palazzo Madama, soprattutto quelli dei molti senatori che sono considerati «contendibili». Anche Conte, però, sa bene che l'operazione non è affatto facile. E infatti pare aver perso l'entusiasmo con cui giovedì sera aveva detto in privato a un suo interlocutore di essere pronto a salire al Colle per chiedere la verifica. Ieri, a farlo tornare a più miti consigli sono stati due elementi. Intanto l'inattesa pax renziana, visto che pur continuando ad usare toni duri e di scherno, l'ex leader del Pd ha messo in chiaro che non darà a Conte il pretesto che cerca. «Voteremo la fiducia al Milleproroghe» che andrà in Aula la prossima settimana, ci tengono non a caso a far sapere i renziani. Ma a pesare sulla pausa di riflessione di ieri c'è anche la posizione del Pd. Secondo Dario Franceschini ministro dei Beni culturali, capodelegazione dem nel governo e uomo vicino alle cose del Quirinale la partita deve essere infatti giocata con più pazienza. «Anche perché quella è proprio la dote di cui Matteo difetta», faceva presente ieri in privato. Più che andare allo scontro frontale, insomma, sarebbe meglio sondare i senatori renziani per capire quanti tra loro sarebbero pronti a riabbracciare il Pd. Anche per questo il messaggio che sta veicolando il segretario dem Nicola Zingaretti è diretto proprio agli ex compagni di partito che hanno scelto di abbracciare Renzi. «Se si arriverà alla rottura e se davvero Iv presenterà una mozione di sfiducia contro il ministro Bonafede è il senso dei suoi ragionamenti sia chiaro che un'alleanza elettorale con Italia viva sarà impraticabile a tutti i livelli. Dalle prossime elezioni politiche, al voto nel più piccolo dei Comuni». Un modo per mettere in chiaro che chi deciderà di seguire Renzi nel caso vada avanti fino al redde rationem farà fatica non solo a tornare in Parlamento, ma pure ad entrare in Consiglio regionale. Chissà, dunque, che i quattro o cinque senatori di Iv che al momento sembrano intenzionati a tornare sui loro passi non vadano nelle prossime settimane ad aumentare, scaricando di fatto la pistola che ormai da mesi Renzi tiene sul tavolo.

Il problema, però, è che proprio in situazioni come queste può accadere che il colpo parta in modo accidentale. Soprattutto se la convinzione che le elezioni anticipate siano ormai alle spalle continuerà a fare da volano allo scontro. Era solo giugno, d'altra parte, quando Conte con tanto di conferenza stampa in pompa magna decise di chiedere pubblicamente un «chiarimento» tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

Due mesi dopo, per certi versi anche inaspettatamente, il Conte I si andò a schiantare su una crisi estiva senza precedenti.

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