Alle presidenziali austriache, dunque, stando alle analisi dei voti, quasi il 90% dei «lavoratori manuali» ha appoggiato il candidato della cosiddetta ultradestra, Norbert Hofer, mentre fra i «colletti bianchi», la maggioranza, il 60%, ha scelto l'ex ecologista indipendente Alexander Van der Bellen, che alla fine l'ha spuntata per un pelo, 30mila voti in più. In molti hanno tirato un sospiro di sollievo, anche se il paradosso di una «classe operaia» che cerca il suo paradiso lì dove tutti i media e le istituzioni del politicamente corretto vedono l'inferno, è interessante e meriterebbe un approfondimento invece del solito anatema: fascisti, sfascisti, estremisti, razzisti, xenofobi, fate voi, c'è solo l'imbarazzo della scelta.
In una nazione dove il Partito democratico e il Partito popolare fino all'altro ieri godevano dell'ottanta per cento dei consensi, e oggi insieme non superano il 23 per cento, e il Partito della libertà di Hofer è comunque la prima forza politica, è in atto da tempo un terremoto: sono saltate le barriere e le categorie classiche non reggono più. Cominciamo da quella che un tempo era la sinistra: oggi in Austria, ma il discorso vale anche per il resto d'Europa, è poco più d'una rappresentanza borghese di funzionari e di tecnocrati, con una spruzzata di bohème intellettuale, succuba alle esigenze della finanza. La sua modernizzazione ha significato il rifiuto di ogni base comunitaria del legame sociale, il suo liberismo societario non è altro che l'applicazione in campo sociale del liberismo economico della destra. È la cosiddetta sinistra dei diritti individuali fatti passare per una nuova etica socialista. Non potendo più essere anticapitalista, ha abbracciato insomma, con lo zelo del neofita convertito, l'idea di una metafisica del progresso per la quale qualunque forma di appartenenza e/o di identità è oppressiva e discriminante. Di qui la successiva celebrazione delle virtù del mercato sociale senza frontiere e di ogni forma di affrancamento da appartenenze e identità date (comprese quelle sessuali). La sua aspirazione finale è un egualitarismo colorato di ecologismo igienista, in cui frenesia purificatrice, normativa e normalizzatrice, e mondo senza classi, senza confini, senza differenze sessuali, etniche o razziali, senza alcol, senza tabacco, vanno a braccetto. Tutto ciò che ha a che fare con la realtà, quella vera, le è perciò insopportabile e la realtà, quella vera, va dunque negata o, se è il caso, «rieducata». È anche per questo che i successi del capo avverso, i milioni di voti dei cosiddetti partiti populisti, vengono derubricati come «illegittimi», un insulto e una ferita alla democrazia.
Il populismo però non è la destra, perché da almeno un ventennio la gestione «tecnica» delle cose, degli avvenimenti, basata sugli imperativi programmatici del «governare» ha svuotato le varie destre nazionali di ciò che un tempo ne era la ragion d'essere: valori, morali e filosofici, attenzione alle tradizioni, difesa dei confini e delle identità. Il sostegno dato a un'Unione europea basata su principi economici ha inferto loro il colpo finale, perché le ha private di ogni autonomia politica, relegandole nel cul de sac di un sistema sovranazionale che le nega alla radice e impedisce qualsiasi ipotesi alternativa. Dietro al populismo, austriaco ed europeo, ci sono allora i cosiddetti «perdenti della globalizzazione», le classi popolari, operai, artigiani, piccoli commercianti, impiegati, disoccupati, eccetera che si oppongono per definizione all'individualismo astratto, in quanto vivono sulla propria pelle i guasti concreti del mercato senza frontiere e senza regole, e che continuano a trovare significativi quei concetti identitari che fanno tutt'uno con ogni cultura popolare che si rispetti: abitudini collettive, solidarietà, trasmissione del sapere eccetera
Questo populismo avverte, più o meno confusamente, che dietro l'immigrazione, per esempio, c'è un umanitarismo che riduce i migranti alla loro indigenza, mentre il padronato li riduce alla loro forza-lavoro. I suoi componenti sentono cioè che saranno i primi a essere investiti da una guerra fra poveri che li vedrà soccombere. Nella sua componente più avvertita, il populismo sa benissimo che la posta in gioco non è semplicemente quantitativa, una questione di cifre, gli esseri umani come dei numeri. Dietro quegli esseri umani ci sono culture diverse, quegli esseri umani hanno a che fare con la storia, con l'appartenenza, di chi arriva e di chi riceve. Una «diversità» senza differenze non ha senso e l'idea di un uomo d'ovunque e di nessun luogo, neutro o trans, transfrontaliero, transnazionale, vuol dire spogliarlo delle caratteristiche che gli sono proprie.
Siamo eguali, ma non siamo identici. Così il populismo, in Austria come nel resto d'Europa, corrisponde a quel momento delle democrazie nel quale il popolo cerca di fare quella politica che i governanti non vogliono più fare.
Il disprezzo con cui questa ondata populista viene dappertutto accolta, l'idea che i partiti che la rappresentano possano sì presentarsi e correre, ma non abbiano il diritto di vincere, rischia sempre più di far passare l'idea che la democrazia in sé sia una farsa. Siamo sicuri che sia la strada giusta?
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