Coronavirus

Quell'infermiere-soldato: "Mio figlio vuole il virus per potermi rivedere..."

Nicola Paciello è un infermiere del 118 impegnato in trincea: "Ho visto scene terribili. Questo virus è insidioso e colpisce alle spalle"

Quell'infermiere-soldato: "Mio figlio vuole il virus per potermi rivedere..."

"È un mese che non abbraccio i miei figli". Comincia così il lungo racconto dell'infermiere Nicola Paciello, 46 anni, che da ben 25 corre da un capo all'altro della città di Napoli a bordo di un'ambulanza del 118. Una vita intera spesa a salvare vite per poi ritrovarsi improvvisamente alle prese con un nemico infido "che ti sorprende alle spalle" e conta i secondi.

Sono giorni impegnativi per i soccorritori, soldati disarmati che combattono in prima linea una guerra insidiosa e crudele. Ormai, tutti gli schemi sono saltati e ci si muove in punta di piedi, come in un campo minato pronto ad esplodere i colpi da un momento all'altro. "Ciò che ho visto in queste settimane è terribile. Tutto inizia con la febbre. Quattro giorni a letto, ma si pensa alla influenza. Ci pensano tutti. - racconta alle pagine de il Corriere del Mezzogiorno - Poi, si fanno i conti con la verità. Resistenza ai farmaci. Tosse secca. Ed in poche ore si passa da uno stato di malessere generale alla insufficienza respiratoria. Terrificante. Un vero nemico invisibile".

È un racconto straziante quello dell'infermiere costretto, suo malgrado, a sfidare la sorte. Negli occhi degli assistiti, talvolta, aleggia la consapevolezza di non poter sfuggire alla morte. Perché quel maledetto virus ti spezza il fiato ma trascura i sentimenti: "Si parla poco - conferma Paciello - ma si intuisce molto e si comunica con gli occhi. Chi fa il mio lavoro lo sa. Quante persone che soccorriamo, ancora lucide, si rammaricano per aver commesso eccessi irreparabili e per non aver usato la dovuta cautela".

Ma il virus non stravolge solo la vita dei contagiati bensì anche quella di medici e infermieri obbligati, per cautela, ad allontarsi dai propri affetti più cari. Una sofferenza inconsolabile ma necessaria. "È un mese che non abbraccio i miei figli - racconta Nicola - Vuole sentire l' audio che mi ha inviato il più piccolo, di 8 anni? Piange al telefono. Parla dei suoi amichetti che su Instagram raccontano di aver trascorso una bella giornata con i loro papà. Mentre lui si augura di essere contagiato dal coronavirus per potermi vedere e abbracciare. Sono tornato a vivere nella mia cameretta, nell' appartamento di mio padre - racconta -, ma sono attento a non incontrare nessuno, neanche lui. Vivo separato da tutti. Non si può mai sapere. E se non lavoro, resto giù nel garage. Mi industrio a fare qualcosa, rimanendo lontano dai miei". La figlia primogenita ha compiuto tredici anni lo scorso 28 marzo.
"Ha dovuto festeggiare il compleanno senza di me - continua l'infermiere -.L' importante è che i miei figli sappiano cosa sto facendo. È il mio lavoro. Anzi, forse ora è diventato più di un lavoro. Vorrei abbracciarli, ma non si può. Mi accontento, osservandoli da lontano. Passo qualche volta per lasciargli un po' di spesa: il sacchetto a terra, io a distanza, arrivano, mi soffiano un bacio con la mano e riparto in auto".

La battaglia non è ancora finita: "La vera libertà è la salute.

E mai come nel corso di un epidemia così terribile è necessario essere prudenti contro un nemico subdolo e insidioso che ti sorprende alle spalle".

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