Addio Rio 2016, dove il corpo non è peccato e ci mette la faccia. Non c'è vergogna, non c'è tabù, non c'è imbarazzo, non ci sono impurità, sacrilegi, dogmi, ossessioni, pruderie, moralismi malati. È una Olimpiade carnale, come questa città, che hanno cercato di (...)
(...) scarnificare, senza riuscirci. Rio non si è rinnegata. Non è Pechino e non è Londra e non assomiglia alla Tokyo che verrà. Rio è la festa del corpo, che non ha paura di mostrarsi per quello che è: bello o appesantito, giovane o che cerca di resistere agli anni, con le smagliature, biblico, sbarazzino, accattivante, archetipo, insolente, con tutte le sfumature di pelle, sudato o bagnato dalle piogge improvvise, con i segni delle rughe intorno agli occhi, che ci vuole tutta una vita a disegnarli. Perché come sta lì a dire Jorge Amado è la tristezza l'unico peccato mortale, perché è l'unico che offende la vita. Sono le gambe rinsecchite di un vecchio americano in bermuda che porta la sua eleganza naturale come un bastone al quale appoggiarsi. Sono l'esplosione di cosce tonde, di sederi bassi, di gambe lunghe e levigate, di seni arroventati e di profili disegnati sotto gli shorts. Sono i corpi delle favelas, dove i bambini si coprono con il cartone, non per il freddo, ma per difendersi dai topi, ma alla fine ha svelato pure questo, perché la povertà non la puoi nascondere sotto la pubblicità di una carta di credito. Sono i pochi profili sotto il velo che diventano casi universali, come se una scelta privata fosse una questione di tutti. È il corpo misericordioso del Cristo Redentore sulla cima del Corcovado.
Sono panze cilene o bulgare portate con allegria da mariti soddisfatti. Sono le braccia di Phelps che tagliano l'acqua con la forza sublime di Moby Dick. Sono le caviglie nude che atterrano sulle parallele e la danza mistica delle farfalle della ritmica. È la linea perfetta della schiena del beach volley e lo slancio potente del sollevamento pesi. È la punta del fioretto che colpisce il torace per assicurarsi che la spia luminosa del colpo funzioni. Sono i talloni della marcia e le braccia levate del muro che risponde alla mano tesa di una schiacciata veloce. Sono i corpi spiaggiati al vento di Copacabana. È il venditore di accendini e sigarette sfuse, come nell'Italia del dopoguerra, davanti alla chiesa della Candelaria, mentre da qualche parte un violino suona Alleluia di Leonard Cohen. E ti sembra che la saudaci già ti tocca il cuore.
È il corpo di Usain Bolt che si prende la scena, con quell'andatura curva dopo la vittoria, che si apre ad abbracciare il mondo. È Simone Biles guancia a guancia con Zac Efron. È Vinicius de Moraes che ti racconta la garota di Ipanema: «Guarda, che cosa bellissima, piena di grazia, è quella ragazza, che viene e che passa con il dolce ondeggiare sulla strada per il mare». Sono i muscoli di Pita Nikolas Taufatofua, il portabandiera di Tonga, che ha raccolto gli ohhhh del Maracanà.
È la mappa universale dei tatuaggi, sui polpacci, sugli inguini, dietro l'orecchio appena coperto dai capelli, sugli avambracci, sulle spalle, lungo la caviglia, dal collo che scendono giù giù fino alla schiena scoperta, appena sopra il seno o intorno al polso. Qui non ci si copre neppure quando piove e solo i più pessimisti portano ombrelli e non ci sono giacche e cravatte e solo arbitri e giudici e presidenti federali indossano camicie, i più formali indossano le polo. È il carpiato in sincrono di Tania Cagnotto e Francesca Dallapè. È la pancia nuda che danza felice e ruspante ai blocchi dei 100 ostacoli di Michelle Jenneke. È la corsa ermafrodita di Caster Semenya. È il corpo steso di Shaunae Miller al traguardo dei 400 metri femminili. Sono i piedi in infradito di ogni taglia e nazione, piedi carioca, piedi cinesi, piedi spagnoli, piedi del nord Europa, piedi giamaicani, piedi slavi, piedi africani, piedi smaltati e piedi che camminano da settimane. È che ormai la trentunesima Olimpiade sta per finire e la sua bellezza è non aver cercato la perfezione, ma qualcosa di più terreno e vicino. È il bar dell'Imaculada, nei vicoli di fronte al porto, con gli stessi colori di Napoli. E lì il piatto di casa è la fasolada e ogni tavolo ha il nome di un padre o di una madre della musica brasileira.
È la ragazza dai grandi occhi che ti saluta e ti sussurra che se vuoi conoscere Rio devi metterti in gioco. Questi trentunesimi giochi olimpici ti ricordano che perdi se hai paura, se ti nascondi, se rinneghi il tuo corpo. Se ti copri.Vittorio Macioce
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