Coronavirus

Covid-19, i bambini lo trasmettono o no? Ecco cosa dicono gli studi

I bambini con il Covid sono "untori" o no? Una statistica con la risposta definitiva ancora non c'è ed i numeri danno ragione (e torto) ad entrambe le scuole di pensiero: i più piccoli trasmettono il virus come gli adulti, anzi no. Una ricerca americana a lungo termine (forse) darà la soluzione

Covid-19, i bambini lo trasmettono o no? Ecco cosa dicono gli studi

Le modalità con cui il Coronavirus colpisce i bambini resta, ancora oggi, uno dei maggiori punti interrogativi che divide la comunità scientifica: c'è chi propende per un coinvolgimento minore grazie alla giovane età e chi pensa, invece, che i più piccoli siano "superdiffusori" del virus.

Domande senza risposte

Scoprirlo al più presto sarebbe di fondamentale importanza così da capire quanto possano trasmettere il Covid-19: innanzitutto bisogna accertare se il virus è più clemente con i più piccoli o se nella maggior parte dei casi i bambini sono asintomatici. Da qui si apre un altro mondo: e se fossero asintomatici (quindi positivi) trasmettono di meno il virus perché hanno una carica virale più bassa rispetto agli adulti o tutto ciò non è vero ed infettano esattamente come i grandi? Serviranno forse altri mesi prima di avere risposte più chiare. Nel frattempo, però, si moltiplicano studi e ricerche per cercare di saperne di più.

Bambini: untori o non untori?

Che l'incertezza regni sovrana è dimostrata da un caso emblematico contrapposto da ipotesi molto concrete: un recente studio condotto in Francia e pubblicato sulla rivista specializzata Clinical Infectious Diseases ha analizzato il caso di un bambino di 9 anni affetto da Coronavirus che, dopo essere entrato in contatto con 172 persone, non ne ha infettata neanche una. "Il bambino presentava solo sintomi lievi e, una volta testato, risultava avere livelli di virus appena rilevabili. Si ritiene proprio che sia il basso livello di infezione a spiegare perché non abbia infettato altre persone", ha dichiarato Kostas Danis, un epidemiologo francese. Dall'altro lato, però, abbiamo una ricerca italiana condotta dall'ospedale pediatrico Buzzi di Milano che ha osservato come a gennaio siano state riscontrate numerose polmoniti anomale nei più piccoli, soltanto adesso riconducibili al Covid. "Tosse e febbre non passavano mai - ha dichiarato Gian Vincenzo Zuccotti, direttore responsabile della pediatria del Buzzi a LiberoQuotidiano - penso che l’epidemia possa essere partita prima in età pediatrica”. Non c'è alcun tipo di certezza ma resta in piedi l’ipotesi che i bambini possano essere stati gli untori: una tesi plausibile perché, tranne in rari casi, nei pazienti più piccoli la polmonite non è stata grave e potrebbero essere loro i responsabili del contagio di genitori e nonni all’insaputa di tutti.

Altri punti interrogativi. "I bambini non sono superdiffusori di Covid-19: è ora di tornare a scuola", affermano due ricercatori in uno studio pubblicato sul British Medical Journal. Anche se i dati che abbiamo a disposizione fino ad oggi indicano che soltanto il 2% sotto i 18 anni in Cina, Italia e Stati Uniti si è ammalato, per molti studiosi ciò non significa che siano meno suscettibili all’infezione e soprattutto meno contagiosi. In ogni caso, perché i bambini abbiano sintomi più leggeri degli adulti resta per ora un mistero ancora da chiarire. Il collega Federico Giuliani, in un'articolo per IlGiornale.it, aveva messo in luce come i più piccoli, in maniera inconsapevole perché asintomatici, possano essere superdiffusori senza febbre citando uno studio cinese secondo il quale i neonati sembrerebbero essere vulnerabili al virus con i casi più gravi al di sotto dei 5 anni (l'età in cui il sistema respiratorio è ancora in via di sviluppo e quello immunitario non ancora maturo).

L'ipotesi del Bambin Gesù. Il centro d'eccellenza italiano e mondiale per la diagnosi ed il trattamento delle malattie rare è sicuramente l'Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma. Come si legge nell'apposita sezione chiamata "Nuovo Coronavirus e bambini, cosa c'è da sapere", a cura di Patrizia D'Argenio e Maia De Luca dell'Unità Operativa di Immunoinfettivologia pediatrica, si ipotizza un minor coinvolgimento dei più piccoli perché più esposti alle infezioni degli altri coronavirus come quelli del raffreddore, ed è quindi "possibile che la risposta immunitaria a infezioni recenti da Coronavirus aiuti i bambini a difendersi meglio anche dal nuovo Coronavirus. Inoltre, il sistema immunitario dei bambini potrebbe essere in grado di rispondere meglio all'infezione perché più reattivo". Insomma, se si ammalano di meno, di conseguenza contagiano meno degli adulti.

La super ricerca americana

Tra sei mesi ne sapremo, probabilmente, di più: il National Institute of Health americano, in collaborazione con la Venderbil University di Nashville, in Tennessee, ha arruolato seimila piccoli americani e le loro duemila famiglie per stabilire la percentuale di infezioni tra i bambini, quanti dei contagiati sono asintomatici e se i piccoli che soffrono di allergia o asma sono in qualche modo protetti dallo sviluppare la malattia in forma grave, così da chiarire una volta per tutte se i bambini trasmettono il virus agli adulti e agli altri bambini continuando così la catena di trasmissione. Lo studio, che includerà sia i sani che gli allergici, durerà sei mesi e verrà condotto totalmente a distanza. Come si legge sul Corriere, ogni due settimane un familiare adulto farà un tampone ai bambini ed a tutti i membri della famiglia e spedirà i campioni ai laboratori. Sarà anche necessario compliare un questionario in cui si elencano possibili sintomi, pratiche di allontanamento sociale e le attività fuori casa. Se un membro della famiglia svilupperà sintomi sarà anche raccolto un campione fecale e saranno raccolti anche campioni di sangue ogni due, 18 e 24 settimane per lo screening agli anticorpi quando sarà individuato un test appropriato.

Lo studio islandese

In Islanda invece, dove sono stati già effettuati screening di massa, i ricercatori che hanno analizzato le possibilità di contagio da Covid-19, hanno scoperto che i bambini sotto i 10 anni non diffonderebbero il virus in modo rilevante se non in presenza di sintomi significativi. Lo studio è frutto del lavoro dei ricercatori dell'Università di Reykjavik ed è stato pubblicato lo scorso 14 aprile sul prestigoso New England Journal of Medicine. Va specificato che la ricerca è stata condotta su campioni esclusivamente islandesi ed ha coinvolto il 6% della popolazione (circa 22.300 persone), la più massiccia effettuata in Islanda fino a questo momento. La ricerca va a braccetto con uno studio di Guangzhou, in Cina, secondo il quale i bambini avrebbero meno probabilità di contrarre l’infezione essendo risultati i responsabili delle infezioni soltanto nel 5% dei casi e nel 10% in uno studio olandese. Percentuali molto basse che scagiorebbero i più piccoli dalla definizione di "untori".

Sindrome di Kawasaki

Se da un certo punto di vista, quindi, i bambini sono mediamente più fortunati degli adulti perché più "riparati" dal Covid, dall'altro lato sono più esposti ad una sindrome che potrebbe essere collegata direttamente alla pandemia, la malattia di Kawasaki, un'infiammazione dei vasi sanguigni dei bambini fino ai cinque anni di età sulla quale la comunità scientifica si interroga da decenni senza riuscire a trovare una cura. Si tratta di una patologia autoimmune che provoca febbre e congiuntivite (ma non solo) ed in alcuni casi anche la morte.

Purtroppo, nelle ultime settimane si sono avuti numerosi incrementi delle sindromi sia in Italia che all'estero, motivo che farebbe pensare ad un legame stretto con il Coronavirus.

sindrome di Kawasaki

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