Coronavirus

Col virus c'è l'incubo Parkinson: "Sarà la terza ondata del Covid"

Uno studio ha mostrato la possibilità di un legame tra il nuovo coronavirus e l'insorgenza del Parkinson, come effetto neurologico della malattia. I ricercatori: "È la terza ondata della pandemia"

Respiratori in un reparto di terapia intensiva
Respiratori in un reparto di terapia intensiva

L'hanno definita "la terza ondata della pandemia". Si tratta delle possibili conseguenze neurologiche, causate dal Sars-CoV-2, che potrebbe portare a un aumento di incidenza del Parkinson nelle persone infettate dal virus.

A lanciare l'avvertimento è un gruppo di scienziati del Florey Institute of Neuroscience and Mental Health, in Australia, che hanno studiato la possibilità del virus di condizionare l'insorgenza del morbo di Parkinson. I ricercatori non hanno ancora compreso fino in fondo le modalità usate da Sars-CoV-2 per raggiungere il cervello, ma "è acclarato il fatto che questo si verifichi", come sostenuto dal professor Kevin Barnham, del Florey Institute. Il virus, ha aggiunto, come riportato da AdnKronos, "può causare danni alle cellule cerebrali innescando un potenziale processo neurodegenerativo".

Nello studio di revisione, pubblicato sul Journal of Parkinson's Disease, gli studiosi hanno evidenziato le possibili conseguenze neurologiche a lungo termine provocate dal Covid-19, identificate come l'"ondata silenziosa" della malattia. Secondo le stime dei ricercatori, sembra che 3 pazienti su 4 tra quelli affetti da nuovo coronavirus subiscano sintomi neurologici: "Abbiamo scoperto che la perdita dell'olfatto o la riduzione dell'olfatto è stata segnalata in media in tre persone su quattro infettate dal virus Sars-CoV-2", spiegano. E, nonostante la perdita dell'olfatto possa non meritare particolare preoccupazione, "in realtà ci dice molto su quello che sta succedendo all'interno: c'è un'infiammazione acuta nel sistema olfattivo".

Secondo gli studiosi, proprio la perdita dell'olfatto potrebbe essere un nuovo modo "per rilevare precocemente il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson", dato che si presenta nel 90% delle persone che hanno contratto la malattia e si trovano ancora nella prima fase, che si manifesta circa un decennio prima dei sintomi motori. Attualmente, per diagnosticare la malattia si presta particolare attenzione ai sintomi motori. Ma, "se si aspetta fino a questa fase della malattia di Parkinson per diagnosticare e curare, si perde l'opportunità di adottare terapie neuroprotettive con l'effetto desiderato".

Alla luce di queste osservazioni, i ricercatori mirano all'elaborazione di un protocollo di screening accessibile, che permetta di identificare le persone a rischio o nella prima fase della malattia. "Dobbiamo scuotere la comunità, facendo capire il Parkinson non è una malattia della vecchiaia- precisa il professor Kevin Barnham-Come abbiamo sentito più e più volte, il coronavirus non discrimina. E nemmeno il Parkinson".

Il professore ricorda anche come il rischio di contrarre il morbo di Parkinson sia aumentato anche a seguito dell'influenza spagnola del 1918 e, "dato che la popolazione mondiale è stata nuovamente colpita da una pandemia virale, la situazione è davvero molto preoccupante e si richia il potenziale aumento globale delle malattie neurologiche".

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