Che cosa avrebbe fatto Enea sapendo che caricarsi sulle spalle il padre Anchise poteva significare ucciderlo con il proprio respiro? L'immagine più abusata nell'ondata di retorica solidale che ha accompagnato il sorgere dell'epidemia è ora emblema perfetto di un dilemma senza scampo. Se sarà confermato che dal 4 maggio tornerà nelle nostre mani la libertà più attesa, quella di riunire le nostre famiglie, di cenare con gli amici, di andare a trovare anziani genitori e nipoti lontani, confinati negli schermi di intermittenti videochiamate, allora dovremo scegliere quale rischio ci risulti meno grave.
Barare non è un'opzione. Gli ultimi studi sono chiarissimi: il virus potrà anche essere figlio maledetto di perfidi scienziati, della globalizzazione, del clima stravolto, del «neoliberismo predatorio», del 5G o di qualunque altro nemico a casaccio contro cui piace scagliarsi alla gente che piace. Ma la scienza è implacabile sul veicolo dell'infezione: siamo noi stessi. E lo siamo quanto più amiamo qualcuno. I principali luoghi del contagio accertati sono le Rsa, dove i parenti continuavano ad andare in visita agli anziani, gli ospedali, dove medici e infermieri coraggiosi avvicinavano pazienti per curarli, e le famiglie, che si stringevano a falange nella quarantena.
Secondo l'Oms la classifica delle occasioni di contagio è una delle poche certezze: 44 per cento nelle Rsa, 25 per cento in famiglia e 11 per cento negli ospedali. Quando sarà svanito lo scudo psicologico delle autocertificazioni, dei posti di blocco, dei droni, dei Dpcm, purtroppo, e finalmente, la decisione ricadrà su ciascuno di noi. E il dilemma non è per nulla scontato. Mantenere anche in casa, quando si può, mascherine e distanze è indispensabile, ma è spesso difficile e sempre poco umano. Ed è vero che il rischio è oggettivamente calato, specialmente nelle regioni in cui il virus ha colpito meno duramente, ma non è scomparso, specialmente per le categorie più fragili. Se siamo figli o nipoti di persone anziane che non vivono con noi ci dovremo chiedere se siamo disposti a correrlo quel rischio: continuare a tenere lontane le persone a cui tutto ci lega, a partire dal sangue, o metterle in pericolo? E se siamo nonni o zii, siamo disposti, pur di vederli, a rischiare di scaricare sui nostri figli o nipoti la responsabilità indelebile di averci contagiato, di averci fatto ammalare o peggio, anche se è solo un rischio potenziale?
Gira da giorni sul web l'ultima lettera indirizzata ai suoi cari di un anziano ricoverato in fin di vita in una Rsa: «Questo è vivere - scrive -, è stare in famiglia, con le persone che si amano e sentirsi voluti bene e voi me ne avete voluto così tanto non facendomi sentire solo dopo la morte di quella donna con la quale ho vissuto per 60 anni insieme, sempre insieme». Poco si sa dell'origine e dell'autenticità della lettera, ma non importa. Perché è evidente a chiunque abbia un genitore lontano che quelle parole fanno centro: per tutti, o quasi, è importante avere la famiglie vicino, tanto più nei momenti più difficili. E per gli anziani, si aggiunge un dilemma nel dilemma: siamo sicuri che sia giusto rubare mesi, settimane o anche solo giorni di contatto con le persone care a chi vive di quei momenti, sapendo che i giri di giostra prima della fine non sono più cosi tanti?
La risposta certa non c'è. Ci si può rifugiare in un'idea.
L'idea della libertà individuale che ci è così cara: che a scegliere sia, purché ne abbia piena consapevolezza e coscienza, chi rischia di rimetterci di più. L'altro ne pagherà comunque il peso o il presagio. Ma che questa sia la scelta giusta o la più rassicurante non potrebbero dirlo onestamente nemmeno Enea o Anchise.
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