"Davo volto alle paure della gente". Un identikit per incastrare i criminali

Giovanni Battista Rossi è stato il disegnatore di identikit della Polizia Scientifica di Milano. Con la sua matita tracciava su un foglio i volti dei criminali più pericolosi. E a ilGiornale.it dice: "Non basta saper disegnare bene, bisogna entrare in empatia con le vittime e farsi carico delle loro paure"

"Davo volto alle paure della gente". Un identikit per incastrare i criminali

Un foglio e una matita. Era tutto quello che serviva a Giovanni Battista Rossi per poter dare un volto ai ricordi di vittime e testimoni rimasti coinvolti in un delitto. Per 31 anni ha lavorato come disegnatore della Polizia Scientifica a Milano, mettendo nero su bianco le espressioni dei criminali, riconosciuti grazie ai suoi identikit. Da Unabomber ai killer della Banda della Uno Bianca, Rossi è stato il numero uno nel suo campo, chiamato anche in altre regioni per aiutare a risolvere i casi più complessi d'Italia.

A lui si è ispirato anche Maurizio Lorenzi per scrivere il suo libro, uscito con Il Giornale, Identikit. Il disegnatore di incubi. Ora Giovanni Battista Rossi è in pensione e il suo posto è stato preso anche da un computer, che mostra alla vittima parti di un volto, tra cui riconoscere quelle più somiglianti al criminale: "Il problema - spiega a ilGiornale.it - è che manca il passaggio principale, cioè il disegnatore", il cui ruolo è fondamentale nella creazione di un identikit, per l'empatia che riesce a creare con la vittima.

Come è diventato un disegnatore?

"È una storia parecchio lunga. Ho fatto il liceo classico, perché non mi avevano lasciato fare l'artistico, ma avevo la passione per il disegno e la pittura. Quando avevo vent'anni sono rimasto orfano di mamma e papà nell'arco di dieci mesi e mezzo. Trovandomi da solo, non avevo molte alternative e dovevo fare il servizio militare, che all'epoca era obbligatorio".

E cosa ha fatto?

"Mi hanno proposto di fare, al posto del servizio militare, o il carabiniere o il poliziotto. Io ho fatto domanda a entrambi, ma la prima a chiamarmi è stata la Polizia e a dicembre del 1978 sono andato a Trieste. Poi mi hanno mandato a Milano e ho avuto la possibilità di fare il corso di disegnatore di identikit per la Polizia scientifica. Ho superato l'esame e sono entrato nella Polizia scientifica di Milano nell'agosto del 1981. E lì sono rimasto per 31 anni, fino alla pensione".

In questi anni il suo lavoro è cambiato con l'avvento delle nuove tecnologie?

"Nell'evoluzione degli anni mi è stato proposto più di una volta di passare al digitale. Negli anni '90 una ditta di Roma era venuta a Milano per parlare con me, che ero il miglior disegnatore della Polizia Scientifica, per creare un programma che riuscisse a fare gli identikit in modo quasi automatico. Questo programma prevedeva la creazione di un database di 60mila pezzettini di volto che, selezionati tramite varie schermate e combinati tra loro, formava un volto. Questa però era una base di informazione su un volto, ma non era un identikit vero e proprio".

In che senso?

"L'elaborato base restava quello, ma poi c'era una tavoletta grafica con cui si creava l'identikit vero e proprio, che andava a interagire con quel file creato precedentemente. Alla fine si faceva una ricerca in archivio per capire se il disegno risultava già memorizzato. Questo sistema purtroppo è stato abbandonato nel giro di 5 anni, perché non c'è mai stata una vera e propria volontà di creare un database nazionale e perché in effetti era complicato, anche a causa della lentezza del collegamento Internet dell'epoca. Con questo sistema però abbiamo fatto diversi identikit con risultati positivi, perciò era un supporto valido".

Adesso come si procede?

"In sostanza ora, con il sistema informatico che hanno adottato dal 2010, fanno vedere alla vittima sul monitor diverse schermate con diversi tipi di volto e con diverse espressioni di occhi, di bocca e di naso. Il problema è che manca il passaggio principale e cioè il disegnatore".

Il disegnatore ha un ruolo importante?

"Assolutamente sì. Il disegnatore non è colui che esegue l'identikit, ma è lo strumento attraverso il quale la vittima crea, riproduce, dà vita all'identikit. Questo è l'errore di base del nuovo sistema. Io sono stato formato non solo per disegnare - sapevo già disegnare - ma soprattutto per approcciarmi alla vittima. Il corso dava la base per affrontare il momento di empatia con la vittima, perché il disegnatore deve riuscire a entrare in empatia con la persona che ha di fronte, per poter diventare lo strumento attraverso il quale la vittima esegue l'identikit".

Cioè?

"Che utilizzi carta e matita o tablet non ha importanza, quello che conta è il passaggio fondamentale della vittima attraverso il disegnatore. Un altro momento importante è quello in cui si inizia a disegnare: lì la vittima vede che prende forma l'identikit. L'espressione è data dal triangolo occhi, naso e bocca e quando la vittima vede che l'espressione è quella che ricorda c'è una maggior attivazione da parte sua: la spinta a collaborare si intensifica, perché la mente si apre e torna la memoria in modo più presente ed escono ulteriori particolari".

Qual è la cosa più difficile?

"Il momento più difficile è andare in empatia con la vittima, per cui si crea una forma di fiducia reciproca: il disegnatore si fida di quello che dice il testimone e il testimone si fida del disegnatore per quello che verrà riprodotto. Il disegnatore, sentendo il racconto e facendolo proprio, patisce il dramma che ha avuto la vittima. L'importante è riuscire creare questa atmosfera. Il momento magico è proprio la creazione dell'empatia: in quel momento il disegnatore subisce tutto il patema che ha avuto la vittima, le paure, il dolore e deve farseli suoi, deve riuscire a somatizzarli. Il momento più difficile è la consapevolezza del disegnatore di dover sopportare tutto questo, per riuscire a fare bene il suo dovere".

Cosa succede quando una vittima va a fare una denuncia?

"Quando la vittima va nell'ufficio di polizia a esporre denuncia, il collega la verbalizza e fa domande di rito, che sono domande brutali e fanno rivivere quello che è successo. Il disegnatore, sotto questo punto di vista non ha interesse a quello che è successo, ma a chi ha commesso il fatto. Riuscire a riportare la mente della vittima all'attimo precedente la violenza è fondamentale. Poi la persona inizia a parlare e riesce a focalizzare la memoria a quando il delinquente è entrato nel suo campo visivo e questo la aiuta a superare il trauma. Nel momento in cui il disegnatore lascia parlare entra in empatia con la persona e, se manca qualcosa, fa qualche domanda mirata".

Lei ricorda il primo identikit che ha disegnato?

"Sì, lo ricordo benissimo. Il primo è stato per una signora anziana, che aveva in casa una collaboratrice domestica dell'Est e dopo sei mesi si è ritrovata la casa ripulita di tutto. Il giorno dopo la donna non si era presentata al lavoro ed era nato il dubbio che fosse stata lei, insieme a un complice, a ripulire la casa. La signora anziana è venuta a fare la denuncia e mi ricordo benissimo il disegno che ho realizzato. Dopo una settimana un collega mi aveva detto che erano riusciti a identificarla grazie al mio identikit".

Quale fu l'identikit più difficile da fare?

"Uno solo non c'è. Quelli difficili sono quelli fatti per le violenze sui bambini. Il giorno prima dell'identikit dovevo cercare di portare a quota zero quelle che sono le emozioni, anche perché, essendo disegnatore maschio, rappresento colui che ha provocato dolore alla vittima, per cui già questo è difficile da superare. In più questo è un tipo di reato che odio particolarmente, per cui devo cercare anche di rimanere calmo. Fatto l'identikit poi mi servivano altri due giorni per smaltire il tutto. Quindi sicuramente gli identikit più difficili erano quelli. Poi c'è anche l'identikit che non si riesce a fare, che è il più drammatico".

Quindi non sempre si riesce a fare un identikit?

"Esatto, non sempre si riesce a farlo. A volte perché viene inventato. Quando il disegnatore non è soddisfatto del risultato finale è una brutta sensazione, perché pensa di non essere riuscito a entrare in empatia o a fare in modo che la vittima si fidasse. E vengono i dubbi sul lavoro che fai e su come sei. Sono momenti difficili. Capita e purtroppo è capitato".

Quanti identikit ha fatto nel corso della sua carriera?

"Diciamo che in 31 anni di servizio avrò fatto più o meno un migliaio di identikit. E ci sono anche quei dieci, venti che non sono riuscito a fare".

Lei disegnò anche il volto dei fratelli Savi?

"Purtroppo sì. Ero stato chiamato a Bologna per fare gli identikit, quelli che poi hanno indirizzato le indagini verso i colleghi. Per lavorare chiedevo sempre una stanza isolata, in cui parlavo con una, massimo due persone alla volta. In questo caso due persone mi stavano descrivendo quello che poi è risultato Roberto Savi. Ho fatto l'identikit e sono uscito, per portarla al funzionario che si trovava in fondo al corridoio. Mentre stavo camminando, a un certo punto, di fianco mi passò un collega e gli dissi, facendogli vedere il disegno: 'Collega, guarda come gli assomigli'. E sono andato. Quello era Roberto Savi".

Cosa rende identificabile un disegno?

"È l'espressione. Ognuno di noi ne ha una diversa e il compito più difficile per un disegnatore è quello di riuscire a coglierla, perché è l'espressione che identifica la persona".

Adesso è in pensione. Continua a disegnare?

"Sì. Faccio ritratti su commissione e caricature per la rivista dell'associazione ludico-culturale di Bergamo, il Ducato di piazza Pontida. Per loro ho disegnato diversi personaggi bergamaschi, anche alcuni calciatori.

Poi ho tenuto un corso al liceo artistico Giacomo e Pio Manzù e ho fatto gli identikit di Bartolomeo Colleoni e della nipote Beatrice, che hanno edificato i due castelli principali di Cavernago, un paese della provincia di Bergamo. Infine il 12 aprile sarò alla scuola di Polizia di Piacenza per esporre alcuni identikit, tra cui quelli della Uno Bianca, in occasione della festa della Polizia".

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