Da dieci anni a questa parte, pendiamo dalle labbra di Angela Merkel, ma la sua nomina a «persona dell'anno» per il settimanale Time, più che una copertina a testimonianza di un successo rischia involontariamente di sembrare uno di quegli obituaries per cui un tempo andava famoso il giornalismo anglosassone, ovvero il necrologio dove si seppelliva onorevolmente il morto sparlandone come se fosse vivo.A dirla tutta, per la cancelliera tedesca il 2015 non è stato dei più brillanti, in patria e all'estero: i capitomboli sul fronte dell'immigrazione hanno assunto ritmi surreali, pulcinelleschi verrebbe da dire, se non fosse che siamo di fronte a una ragazza dell'Est (Germania); la locomotiva tedesca ha preso a rallentare; la tanto decantata onestà teutonica è andata a farsi friggere (il tarocco Volkswagen). Per una che, al suo debutto in politica come ministro dell'Ambiente, scoppiò a piangere in pieno Consiglio dei ministri a causa dello «scandalo dei container radioattivi», è una sorta di nemesi e insieme un campanello d'allarme. In democrazia, i cicli della politica raramente superano il decennio: quando la Merkel divenne premier, la Germania aveva un deficit pari al 3% del prodotto interno lordo e per il quarto anno consecutivo aveva violato i parametri di Maastricht. Sotto di lei, da allora la Germania di strada ne ha sicuramente fatta.
Meno strada ha però percorso l'Europa, come idea e non come ammucchiata economica, con in più la sgradevole sensazione che un continente a guida tedesca premia il conducente, ma distrugge il veicolo.La motivazione del settimanale americano permette di capire come fra gli Stati Uniti e il Vecchio continente ci sia di mezzo un oceano intellettuale. «La sua leadership ha aiutato a preservare e promuovere un'Europa aperta e senza confini di fronte all'instabilità economica e alla crisi dei rifugiati in corso». E ancora: la sua promessa di accogliere in toto i profughi siriani è «il gesto più famoso della storia recente». Vale anche la pena sottolineare l'idea che il Time ha della Germania: una nazione che «ha trascorso gli ultimi settant'anni testando antidoti al suo passato genocida, nazionalista, militarista». Poi ci si chiede perché uno come Donald Trump possa correre alle presidenziali Usa e avere anche qualche chance di vincerle...È chiaro che noi italiani-europei, per dirla con Massimo D'Alema, abbiamo sbagliato continente e non sappiamo bene chi ci sia al suo comando. A differenza però di chi dall'altro lato dell'Atlantico ci vede con il cannocchiale, quello che qui succede ce l'abbiamo sott'occhio: morti in mare, respingimenti, innalzamenti di muri, stretta alle frontiere, revisione di Schengen, accordi economici anti-profughi con la Turchia...
Una Babele, più che un'Unione.In tutto ciò, la Merkel ha le sue responsabilità. È entrata in politica relativamente tardi, aveva 35 anni e se ne stava tranquillamente nella Germania orientale, quando il Muro di Berlino le cadde sulla testa; ce ne ha messi dieci per bruciare le tappe interne della politica nella Germania unificata; appena un lustro per completare la sua corsa e divenire capo della Repubblica federale tedesca. Dal 2005 in poi, quella che era una novità assoluta nel panorama politico del suo Paese, «una scienziata in un mondo di giuristi», stando a un suo biografo, è divenuta una costante e paradossalmente un problema. Ha carattere, è tenace, è introversa, incarna l'etica della disciplina, la paura dell'inflazione e un patriottismo senza pathos. L'hanno soprannominata Mutter mutlos, Madre (s)coraggio, perché rappresenta la paralisi della politica che si trincera dietro regole, regolamenti, sanzioni.
Ha preso il posto di Helmut Kohl, che realizzò l'unità tedesca con il cambio alla pari, e ne è l'esatto contrario. Non ha visioni, non ha progetti, è dedita al minuto mantenimento. Suo e del suo Paese. Se questa è l'Europa che ci aspetta, ci accontentiamo dell'Italia che abbiamo.Stenio Solinas- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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