Al telefono Matteo Renzi ti chiede qualche minuto di tempo. «Debbo portar su la legna», dice. Non si sa se serva per il focolare di casa nel giorno della festa dell'Immacolata, oppure per approntare il rogo su cui bruciare il governo Conte. Il tono dell'ex premier, però, è di quelli duri, di chi fa sul serio. «Su questa storia della task force per il Recovery Fund non mi fermo proprio, non torno indietro. Bisogna vedere se si ferma Conte, se ci ripensa, se ritira l'idea della task force. Se va avanti, invece, questa volta finisce male. Io sconto il fatto di essermi fermato su Bonafede, e magari anche su altro. Ma se il premier crede che io in questa occasione gridi al lupo, al lupo, che l'epilogo possa essere lo stesso delle altre volte, insomma, che scherzi, si sbaglia di grosso. Io, se lui insiste, su questa stranezza rompo».
Renzi sembra proprio che questa volta si sia tagliato i ponti alle spalle. Ovviamente in politica è buona regola mai dire mai, ma sulla Piramide di uffici, consulenti, manager, con il Faraone Giuseppe Conte 1 all'apice, coadiuvato solo dai dignitari di corte Gualtieri e Patuanelli, che nella mente del premier dovrebbe gestire quel mare di risorse che in arrivo dall'Europa, il leader di Italia Viva non ha nessuna intenzione di cedere. Soprattutto, non ha la voglia di perdere la faccia, di far la parte del pastorello della favola di Esopo.
Anche perché la situazione non è più quella di inizio estate: la popolarità di Conte è scesa; l'impreparazione con cui il governo ha affrontato la seconda ondata, scaricando il peso di una battaglia solo ed esclusivamente sul senso di responsabilità dei cittadini, ha squarciato il velo sulla retorica del cosiddetto «modello Italia»; ed ancora, il «no» sul Mes sanitario accompagnato dal travaglio grillino sulla riforma del meccanismo in sede europea, ha messo in luce le crepe della maggioranza; infine, il Recovery Fund, un argomento lasciato nello scantinato per mesi e che ora Conte vuole risolvere con il solito organismo «tecnico» messo in piedi per assecondare le sue scelte. Se questa è la tesi, allora tanto varrebbe portare i tecnici nel governo e non lasciarli solo nell'anticamera a bollinare le scelte del premier. Tanto più che si tratta di scelte che in alcuni casi sono a dir poco paradossali: investire solo 8 miliardi di euro dei fondi Ue nella sanità dopo quanto è successo in questa pandemia, è da folli.
Messa così, c'è da dire che il leader di Italia Viva ha pazientato fin troppo, e alla fine è venuta fuori una sua vecchia fissazione, una riedizione del «chicken game» di «Gioventù bruciata», la pellicola che ha reso celebre James Dean, con le due auto guidate da Conte e Renzi che vanno verso il burrone, e con il presidente del Consiglio che se scende prima, cioè se ritira la proposta della task force, evita la crisi ma rischia di perdere la faccia. E già questo fa capire come l'ex premier ed ex segretario del Pd, abbia scelto con cura l'argomento su cui sfidare a duello l'attuale inquilino di Palazzo Chigi. «Anche perché spiega Renzi il mio no a questa struttura parallela che Conte vuole mettere in piedi, ha ragioni da vendere. Ricevo plausi a sinistra come a destra. Sì, dopo tanto tempo c'è chi mi incoraggia in questa battaglia anche a sinistra, mi hanno inviato messaggi molti parlamentari del Pd. Il premier non può pensare di sostituire il Parlamento con una diretta Facebook e il governo con una task force! Poi certo c'è anche chi come il ministro Provenzano mi paragona ad Orban».
Perdere la faccia, può sembrare singolare ma la questione è tutta qui. È la politica. Finora Conte galleggiando sui problemi ha potuto fare quel che voleva. È andata di moda la vulgata che fosse l'unico punto di equilibrio possibile. Ed è probabile che sia ancora la soluzione più facile. Solo che il premier non può pensare che questa condizione astrale sia eterna e gli permetta tutto, che possa infischiarsene facendo il muro di gomma delle istanze che vengono dai partiti della maggioranza. La sortita di Renzi è l'avviso che sta commettendo un errore fatale. Perché come ha detto la scorsa settimana il capogruppo del Pd, Graziano Delrio, su questo giornale: «Conte deve rendersi conto che non è a Palazzo Chigi per grazia ricevuta, ma è stato messo lì nel suo primo governo da Di Maio e Salvini; nel secondo da Di Maio e Zingaretti».
Inoltre questa vicenda testimonia che con la riduzione dei parlamentari e la nascita di un partito trasversale acerrimo nemico delle urne, Conte non ha più a disposizione la sua arma principale per tenere a bada i partiti: la minaccia di elezioni anticipate. Certo il Quirinale per via subliminale l'agita ancora, i ministri dell'attuale governo la paventano, ma si può star sicuri che se chiamati in ballo i bookmaker inglesi in caso di crisi di governo, scommetterebbero su uno o due governi dopo l'attuale, se si rendessero necessari per evitare il voto, e su una durata della legislatura fino al 2023.
È questa convinzione che spinge Renzi ad osare. Tant'è che la partita in ogni caso non finirà con il duello sulla task force, ma continuerà in futuro. «Vediamo è il ragionamento sul futuro - cosa succederà domani sulla riforma del Mes in Parlamento (oggi, ndr) e sul Recovery Fund. Se la riforma passerà e il premier si rimangerà la task force, la palla passerà al Pd. Non per nulla io non ho parlato di rimpasto. Non mi interessa. Non ho nessuna intenzione di svilire questa battaglia. Io ho solo insegnato al Pd come si fa».
Tradotto: se Conte tornerà indietro, se perderà il braccio di ferro sulla task force, tutti si renderanno conto che non è inamovibile; che anche lui deve venire a patti. Che di fronte ad alcuni disastri che hanno combinato alcuni ministri, non può difendere tout court la sua squadra di governo come «la migliore possibile». Insomma, se il premier si tirerà indietro nel «chicken game» per paura, immediatamente non sarà più quello di prima, che prorogava i capi dei servizi con un emendamento in un decreto e comunicava dpcm attraverso la velina di Roccobello Casalino. Dovrà tenere conto delle indicazioni che gli vengono dai partiti della sua maggioranza, partiti che scoprirebbero di avere la forza per imporle. Per fare un esempio: ad un rimpasto ci si può arrivare anche attraverso una crisi di governo se il premier continuasse a dire di «no»; e se facesse ancora orecchie da mercante verso chi lo ha messo a Palazzo Chigi, la «soluzione» alla crisi potrebbe anche prescindere dal suo nome. Ecco perché il duello sulla task force è solo il primo tempo. Poi arriverà la legge di bilancio. Eppoi si vedrà se Conte riuscirà a reinventarsi prendendo atto della sua nuova condizione.
Altrimenti Altrimenti puoi sempre chiedere a Renzi se il quadro politico si stia sfarinando e se ci sia davvero il rischio di una rottura da qui a gennaio o a febbraio. In quel caso ti sentiresti rispondere: «Molto prima...».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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