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Eni in Nigeria, così i giudici hanno demolito le accuse a Descalzi

Non c'è alcuna prova che Scaroni, Descalzi e gli altri manager Eni abbiano pagato tangenti alla Nigeria. Nella motivazione della sentenza che li assolve, i giudici demoliscono il teorema dei Pm milanesi

Eni-Nigeria, così i giudici hanno demolito le accuse a Descalzi

"All'esito dell'istruttoria non è stato possibile ricostruire con certezza tutti i fatti oggetto dell'imputazione" di corruzione internazionale "nonostante l'acquisizione di migliaia di documenti e l'esame incrociato di decine di testimoni e consulenti di parte". Così i giudici del Tribunale di Milano hanno scritto nelle giustificazioni della sentenza di assoluzione che ha riguardato l'attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, il predecessore e attuale presidente del Milan, Paolo Scaroni, e altri tredici imputati tra manager del Cane a sei zampe, dirigenti di Shell, politici nigeriani, uomini d'affari e intermediari dall'accusa di corruzione internazionale. L'oggetto del contendere era la famosa quanto presunta maxitangente da 1,1 miliardi di dollari che sarebbe stata versata dalle due big dell'oil&gas per ottenere in tempi rapidi le concessioni necessarie a poter sfruttare il campo energetico Opl-245 al largo delle coste della Nigeria.

Il teorema costruito dai pubblici ministeri Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale, cavalcato da settori della stampa nazionale come Il Fatto Quotidiano, utilizzato nella tornata di nomine pubbliche del 2020 da esponenti del Movimento Cinque Stelle per chiedere la revoca del mandato di Descalzi in Eni si è alla prova dei fatti squagliato come neve al sole. Il teorema si fondava sul fatto che la cifra di 1 miliardo e 92 milioni di dollari pagata da Eni e Shell per ottenere lo sfruttamento di Opl-245 nel 2011 fosse da paragonare a una vera e propria tangente sulla base del fatto che dai conti del governo nigeriano, una volta incassata la cifra, diversi movimenti sospetti avevano disperso in diversi rivoli i fondi finiti sul conto dell'esecutivo di Abuja. Inoltre, ogni possibile fatto anche solo riconducibile a una possibile prova di una connivenza tra il Cane a sei zampe e il governo nigeriano per la tangente è stato utilizzato dai pm per costruire un impianto accusatorio decisamente vago.

I continui contatti tra gli ad di Eni e il presidente nigeriano Goodluck Jonathan? "Si tratta di consuetudine imposta dai doveri dell'ufficio di amministratore delegato", notano i giudici della settima sezione penale (giudici Marco Tremolada, Mauro Gallina, Alberto Carboni) del Tribunale meneghino. Che dopo aver pronunciato l'assoluzione nelle motivazioni evidenziano gravi vulnus nell'impianto accusatorio. Il quale si fonda su una "tecnica descrittiva che soffre contraddizioni intrinseche e, soprattutto, parifica elementi di prova del fatto rispetto alle condotte tipiche, creando ambigue sovrapposizioni e ulteriori contraddizioni con conseguenti difficoltà interpretative". Gravissima in particolare è la rilevazione del fatto che i pm non avrebbero allegato al materiale dell'impianto accusatorio undocumento che portava alla luce l'uso strumentale che il supertestimone Vincenzo Armanna, ex manager Eni che ha contribuito a molte tesi poi utilizzate contro Descalzi e Scaroni, intendeva fare delle proprie dichiarazioni contro la compagnia che lo aveva licenziato.

Claudi Descalzi esce come grande vincitore da questa vicenda. Descalzi, ai tempi numero due del Cane a sei zampe e Chief operation officer di Eni Exploration & Production, è stato riconosciuto dai giudici come artefice di una condotta incompatibile, già sotto il profilo logico, con la sua asserita partecipazione ad accordi corruttivi di cui, in ultima istanza, non c'è traccia. Descalzi agì in modo lecito e i giudici nelle quasi 450 pagine di motivazioni non hanno trovato motivi per pensare il contrario. Dopo Scaroni, anche l'attuale ad è stato oggetto dei profondi attacchi giudiziari contro Eni che si sono alternati negli ultimi tre decenni. E che si sono legati a una serie di offensive giudiziarie contro le partecipate pubbliche spesso risoltesi in un nulla di fatto (Saipem-Algeria e caso Finmeccanica-India sono esempi noti) che hanno avuto nel tribunale milanese il loro epicentro.

La procura di Milano rischia, dopo l’assoluzione di Scaroni, Descalzi e gli altri imputati del processo Eni-Nigeria, di dover ammettere di aver “dato la caccia per anni a un reato indimostrato e forse indimostrabile”, come ha scritto Luca Fazzo su questa testata. Per l’ennesima volta lanciandosi in una caccia vana su un terreno cedevole e pericoloso. Il sostituto procuratore generale Celestina Gravina ha parlato addirittura di un “enorme spreco di risorse”.

Viene da sé pensare che mettere alla sbarra con astrusi “teoremii nostri campioni nazionali attaccandone i vertici, la reputazione e lo status significhi, di fatto, intralciare azioni e dinamiche di lungo raggio che contribuiscono all’interesse nazionale e alla competitività e alla reputazione del Paese nel mondo. I tenaci “giudici con l’elmetto” che, costruendo teoremi, non si limitano a chiedere il giudizio sulle responsabilità di persone fisiche con incarichi dirigenziali ma accelerano sulla colpevolizzazione delle società o, nel caso recente Profumo-MPS, compiono addirittura spericolati cambi di prospettiva si pongono, inavvertitamente, al servizio di potenziali manovre ostili volte a screditare l’attività di società come Eni e Leonardo. I giudici di Milano hanno commesso un'azione certosina e in controtendenza contro una giusitizia "sensazionalistica" giudicando Descalzi e gli altri imputati sulla base delle prove verificabili, assolvendoli di conseguenza e aggiungendo una corposa e specifica sezione di commento alla lacunosità degli atti d'accusa.

“Il fatto non sussiste”: la formula piena dell’assoluzione rappresenta, per dirla con Giulio Sapelli, una “vittoria dello Stato di diritto” al termine di una vicenda complessa, spesso torbida", e le motivazioni della sentenza rafforzano quanto l'accademico e storico torinese aveva dichiarato a caldo a Formiche. Nella consapevolezza che le motivazioni dovranno essere studiate attentamente: per ricordare che è necessario costruire i teoremi processuali sulla base di prove certe, e non piegare le prove per plasmare una visione processuale volta a dimostrare idee preconcette.

La prima prassi è l'unica che può garantire una giustizia democratica e rispettosa del garantismo.

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