Entra in cella per scontare cinque anni Ci resta per 49

Entra in cella per scontare cinque anni Ci resta per 49

È il 23 ottobre 1971. L'appuntato Vasta accompagna il detenuto fino al portone del carcere di Agrigento: «Mi stringe la mano, mi dice di non farmi più vedere e nient'altro». Nino, Nino Marano, è fuori, con quel senso di vertigine che dà sempre la libertà ritrovata. L'uomo, classe 1944, si è fatto cinque anni di fila in cella, ma ha ancora la vita davanti e una seconda chance, oggi la chiameremmo cosi, per allontanarsi una volta per tutte da furti e piccola delinquenza e rimettere la propria vita in carreggiata. Sono pagine cariche di suggestioni e ansia quelle che Emma D'Aquino, popolare volto del Tg1, ha scritto (...)

(...) per raccontare questa storia sfortunata e drammatica, racchiusa in un libro che si legge come un film, Ancora un giro di chiave, in uscita domani per Baldini Castoldi.

Si ha l'impressione che Marano possa farcela, rompendo la solitudine e scacciando anche i cattivi propositi grazie all'amore, tenace come tutti i veri amori, della sua Sarina. «Passai otto mesi bellissimi con la mia Sarina. Finalmente mi sembrava di respirare. Avevo ripreso in mano la mia vita, avevo cercato e trovato un lavoro».

Sembra fatta e invece il passato è pronto a afferrarlo per un lembo e poi a tirarlo giù, implacabile. Marano diventerà il carcerato più longevo d'Italia per reati commessi in galera. Quarantanove anni di detenzione. Un record quasi imbattibile, una vita intera, sia detto senza retorica, bruciata. Omicidi. Tentati omicidi. Accoltellamenti. Pance sventrate. Regolamenti di conti. Sangue e ancora sangue a macchiare i buoni propositi espressi in quel congedo, davanti al portone del carcere, nell'autunno del 1971.

Eppure gli ingranaggi si muovono bene per quegli otto mesi. Poi un pezzo di carta si mette di traverso e ferma la catena di montaggio della routine, dell'ordinarietà, la sola che avrebbe potuto fermare quella discesa, appena percepibile all'inizio e poi a precipizio. Giù. Sempre più giù. Marano torna dentro: la marcia verso la redenzione si ferma, ci sono da scontare sedici mesi per ricettazione e tentato furto. Poca cosa, come il primo arresto, nel 1965 a Catania, la sua città, per aver portato via melanzane e peperoni, la ruota di un'Ape e una bicicletta.

Nino è di nuovo in circolazione l'anno dopo, 1973, ma qualcosa dentro di lui si è incrinato. O, forse, il demone non se n'è mai andato.

Nino è coinvolto in una rissa, allunga un paio di fendenti a un avversario: vengono a riprenderlo. Non basta. Arrivano altre comunicazioni giudiziarie: un'alta marea che viene da lontano e sale, sale coprendo tutto. Si scopre che la madre, una povera donna semianalfabeta che veniva regolarmente picchiata dal padre, appena vedeva quell'odiata intestazione, tribunale, strappava tutto. «Se non ti trovavano era meglio, no?, rispose quando le chiesi perché non mi avesse detto nulla».

Quasi impossibile seguire a questo punto l'incredibile successione di episodi criminali, processi, condanne, trasferimenti da un penitenziario all'altro, come una trottola senza requie. Noto. La famigerata isola di Pianosa. Agrigento. Potenza. Porto Azzurro. Sassari. Novara. Milano. Voghera.

Marano ferisce e uccide con tutto quello che ha a disposizione: coltelli sfuggiti alle infinite perquisizioni, cocci sagomati in qualche modo, le mani usate come badili. E poi ci sono i seghetti, strumento essenziale per tagliare le sbarre e tentare di andarsene. Qualche fuga riesce, alcune falliscono, tutte sono sul conto, lungo come una lenzuolata, presentato dallo Stato.

L'aritmetica giudiziaria, naturalmente, non coincide sempre con la realtà dei fatti e va dato atto a Emma D'Aquino di aver scavato con ostinazione per sapere quel che le sentenze, non tutte per carità, avevano ricostruito in modo confuso e pasticciato.

Quarantanove anni. L'incontro con i brigatisti, l'immancabile 41 bis. Due ergastoli. La pena che non rieduca, ma diventa la molla inesauribile per nuovi scempi, ambientati quasi sempre, e pare impossibile, fra alte mura, chiavistelli, guardie e agenti. Sullo sfondo, la storia d'Italia, indovinata da dietro le sbarre.

Poi, il 22 maggio 2014, sulla linea

dei settant'anni anagrafici, la scarcerazione. Quella, si spera, definitiva. Ma comincia un'altra prigionia: «È - conclude l'autrice - l'inferno dei ricordi. Il prezzo che sta pagando per quello che ha fatto».

Stefano Zurlo

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