La favolosa confraternita di noi migranti

Quando in dicembre, nei paesi dell'alta Lombardia, tornavano dall'estero gli emigranti per passare le feste in famiglia, si formava, fra le due o tre vie e la piazza degli abitati rurali, una cupa atmosfera. Il treno aveva portato qualche centinaio d'uomini nel capoluogo, con le loro valigie e i loro involti, ognuno con l'impedimento d'un valigione dov'erano pressati vestiti (...)

(...) e biancheria che le mogli avrebbero rammendato e lavato per bene, almeno quella volta all'anno. Le tramvie, qualche carrozza, e le prime corriere che risalivano le valli, smistavano quella banda di muratori, di piastrellisti, di gessatori e d'imbianchini lasciandone tre, cinque o poco più per paese.

Il giorno dell'arrivo, comunicato dal più espansivo degli emigranti alla sua famiglia, diventava di ragion pubblica, e fin da quel mattino le mogli e i figli erano in allarme. Si dava il caso che dei ragazzi non ricordassero neppure le fattezze del padre, assente talvolta da anni e remoto alla loro memoria: andavano tutti in gruppo, fuori dal paese, al sommo delle strade che scavalcavano le colline, per spiare l'arrivo della carrozza. Quando la vedevano, sulla sera, venir da lontano, sovraccarica di uomini e di bagagli, correvano ad avvertire le madri prima che il veicolo entrasse in paese.

Per un'intesa tacita e forse per antica tradizione o abitudine, la carrozza andava sempre ad arrestarsi davanti all'osteria del paese, dove gli emigranti entravano e sedevano tutti insieme ad un tavolo. Le mogli, consapevoli di quegli usi che avevano la serietà di un rito, aspettavano in casa, o qualche volta, appena buio col figlio più piccolo per mano, si spingevano fino alle finestre dell'osteria, donde sogguardavano all'interno per accertarsi che il loro marito fosse nel gruppo. I bambini, curiosi, si volgevano alle madri chiedendo qual era, di quei bevitori baffuti e pesanti, il loro genitore.

Se avveniva che lo distinguessero, e che ne venissero riconosciuti, osavano alzare una manina a tentare un saluto anticipato, subito trattenuti dalle madri che sapevano quanto sarebbe stato fuor di posto mollare un bambino e dar luogo a qualche patetico abbraccio nell'osteria, dove gli uomini, fedeli ad una loro contenutezza paesana, stavano tra di loro a bere, quasi per dimostrarsi l'un l'altro la più completa indifferenza verso la moglie o i figli, semplici accidenti nella loro vita di lavoro, tutta vissuta fuori casa e fuori dai paesi, in luoghi come Mulhouse, Nancy, Metz o addirittura Parigi, che alla gente dei paesi sembravano irraggiungibili e fuori dal mondo, accessibili solo a chi fin da giovane e dopo il servizio militare prendeva, come per voto, l'abito della confraternita un po' favolosa e lanzichenecca degli emigranti.

Gli emigranti erano infatti uomini che avevano sofferto uno strappo doloroso del quale preferivano non far mostra. (...) Ma i migliori, quelli che mantenevano i legami con la famiglia e col paese, tornavano tutti gli inverni, quando il freddo fermava i cantieri, a godersi la vita del luogo nativo, a procreare nuovi figli e talvolta perfino a lavoricchiare in proprio nel riattamento della vecchia casa.

Il giorno dell'arrivo le donne, identificato il marito tra i «francesi», come erano chiamati gli emigranti che lavoravano in Francia, in Germania oppure in Svizzera, tornavano a casa coi figli ad attendere il marito, che varcava in silenzio la porta a notte fatta e, ormai lontano dallo sguardo dei compagni, forse si abbandonava a qualche gesto affettuoso, come uno scappellotto ai figli e un grugnito all'indirizzo della moglie, che più tardi, sotto le coperte pesanti del letto disertato da molte stagioni, avrebbero forse cercata nel buio, alla cieca, più per obbligo che per amore. Era forse quel primo contatto, gravido di conseguenze, che l'emigrante si sarebbe trovato di fronte l'inverno dopo, a sciogliere nei giorni successivi il gelo del nido famigliare, dove moglie e figli stavano in soggezione, pensando già alla partenza del despota che pure avevano atteso, all'avvicinarsi dell'inverno, con qualche entusiasmo e speranza subito delusa.

Accadeva tuttavia che qualcuno di quei «francesi» da un bicchiere all'altro scivolasse nell'ubriachezza più completa. Veniva allora portato a casa, a notte tarda, e depositato sulla soglia, dove la moglie, che lo attendeva da un pezzo dopo aver messo a dormire i figlioli, lo riceveva in consegna e pensava a sistemarlo.

L'emigrante, il giorno dopo il suo rientro in famiglia, e per tutto il tempo che avrebbe passato al paese, stava in casa solo nelle ore dei pasti e durante la notte. Verso le dieci del mattino, sceso dal letto dove aveva poltrito qualche ora dopo mesi e mesi di levate mattutine, andava diritto all'osteria, dove ritrovava i compagni, inerti ed annoiati oppure seduti intorno a un tavolo con le carte in mano. Specialmente al pomeriggio e alla sera s'intrecciavano interminabili partite di scopa o di tresette, fra lunghi silenzi interrotti da improvvise esplosioni di pareri discordi sul gioco, alle quali talvolta seguivano discussioni ostinate ma dominate, più che dal buon senso, dal carattere che gli emigranti si erano formati all'estero, dove non bisognava mai impuntarsi o contendere per evitare questioni, non avendo essi altro scopo, la gran parte di loro, in terra straniera, che il lavoro e il risparmio.

Talvolta, durante il gioco al quale assistevano gli uomini del paese, gli emigranti parlavano francese o si scambiavano frasi in tedesco, mescolando al dialetto i loro acquisti linguistici, fatti di esclamazioni o bestemmie esotiche che spesso restavano nel paese e passavano, più o meno deformate, nell'uso comune.

Passato l'inverno e il gelo, a metà marzo e al più tardi alla fine, gli emigranti ripartivano col loro valigione imbottito di biancheria pulita. Il paese, privato della loro presenza, sembrava deserto; e l'osteria, che aveva assorbito gran parte dei loro risparmi, tornava ad accogliere qualche vecchio e i giovanotti che tentavano le prime bevute in attesa della visita di leva e delle feste dei coscritti.

Le mogli degli

emigranti ricominciavano col nuovo anno i lavori dei campi, onde togliere alla poca terra avita un po' di granoturco per le galline e la polenta, i fagioli, le patate e le verze per la minestra d'ogni giorno.

Piero Chiara

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