Incassare, sminuire, rinviare, galleggiare. Con un'unica stella polare politica ed esistenziale: durare più a lungo possibile. Facendo il meno possibile, perché su qualunque scelta politica la sua maggioranza rischia di implodere.
Così Giuseppe Conte, ieri, è riemerso serafico e imperturbabile dall'ennesimo vertice preannunciato con gran fanfare come il punto di svolta per l'esecutivo, e poi finito nel nulla dopo la solita baruffa generale. «Ma no - giura lui -, nessun vertice fallito, quello non era il vero vertice che invece faremo a gennaio, era solo una riunione». In verità, ad annunciare solennemente una verifica di maggioranza era stato lui medesimo, ma fa niente.
A consolarlo, ieri, è arrivato a Roma Beppe Grillo. Calato nella Capitale, confidano speranzosi dal Pd, per «consolidare l'alleanza di governo e cercare di emarginare chi rema contro, come Di Maio». Tanto che, raccontano ancora, sarebbe stato l'anziano ex comico a sbarrare la strada alla candidatura a presidente della Commissione sulle banche di Elio Lannutti (che Di Maio, come ha raccontato lo stesso senatore, aveva invece avallato, lieto di poter infilare un dito nell'occhio ai dem) e a fare filtrare il sospetto di conflitto di interessi, visto che il figlio dell'esponente grillino lavora - guarda un po' - alla Popolare di Bari. «Grillo è consapevole che questa è una occasione storica per migliorare la qualità della vita di questo Paese, siamo in sintonia», annuncia Conte.
A sera, il premier si mostra dunque giulivo in tv, protagonista di un talk show su La7. Spiega che il 2019, che doveva a suo dire essere «un anno bellissimo» ai tempi del flirt con Salvini, è stato invece «un anno impegnativo». E che però lui si sente molto «più confortevole» in questo esecutivo che nel precedente. Perché il suo cuore «batte a sinistra», visto che «mi sono formato al cattolicesimo democratico» (cosa c'entri il cattolicesimo democratico con il culto di Padre Pio lo sa solo lui). Sul futuro sciorina il consueto ottimismo: «Il consenso per Salvini sta scemando», annuncia, sorvolando sul fatto che quel che perde Salvini guadagna la destra estrema di Meloni. Il suo governo, poi, farà grandi cose: un «cronoprogramma» (cosa metterci dentro si vedrà), una «prospettiva programmatica» e una grandissima novità: «La spending review», che è «uno dei progetti che dovremo affrontare». Era già stato annunciato col governo precedente, con tanto di «commissari» alla spending review (Garavaglia e Castelli) nominati dal Consiglio dei ministri e poi immediatamente dimenticati. Le premesse dunque sono buone. E Conte guarda lontano: «Confido che si possa arrivare al 2023, e che nessuno voglia interrompere questa opportunità».
La manovra è passata in Senato, con il voto di fiducia, ma la maggioranza resta un'armata Brancaleone: i Cinque Stelle più che un partito sembrano la Libia, Italia viva di Matteo Renzi si mette di traverso su tutto (nel vertice notturno di lunedì sulla proposta di autonomia predisposta dal ministro Boccia), il Pd è sempre più esasperato: «Non possiamo continuare a fare i donatori di sangue mentre i nostri presunti alleati continuano a spararci addosso. Così non si va avanti». L'irritazione nei confronti di Renzi ha raggiunto livelli di guardia: «Abbiamo fatto i salti mortali per mettere insieme una manovra che evitasse la stangata Iva, e quello va in giro a dire che siamo il governo delle tasse». Per non parlare delle strizzate d'occhio a Salvini e alle sue boutade sul comitato di «salvezza nazionale» e le ipotesi di governissimo.
Il messaggio del Nazareno a Conte è chiaro: «O c'è un salto di qualità vero, e un chiarimento definitivo nella maggioranza, oppure meglio andare a votare». Zingaretti chiede a Conte di smettere di gingillarsi: «Va bene parlare di metodo, tagliando, verifica, agenda. Ma ora bisogna concentrarsi sul merito: servono scelte di campo nette e coraggiose».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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