
In Italia, la polemica sugli intellettuali è una certezza: se ne discute da sempre, spesso in termini poco lusinghieri. Di recente è nato un bisticcio tra l'attore Elio Germano e Alessandro Giuli, ministro della Cultura. Germano ha chiesto più fondi per il cinema e si è lamentato perché la destra pensa a piazzare i suoi uomini come fanno i clan. Il ministro ha risposto che a sinistra è scoccata l'ora dei clown dopo il tramonto del cosiddetto intellettuale organico (al Partito comunista). L'intellettuale organico era fazioso, servile e determinato a tenere lontano chiunque non fosse schierato dalla parte giusta, avete capito quale. Per l'intellettuale di destra niente premi, festival, editori, incarichi, finanziamenti. Risultato: una cultura sempre più chiusa, autoreferenziale, incapace di cogliere le novità, per altro epocali, basta pensare alle reti digitali e all'intelligenza artificiale.
Persa la battaglia politica, azzoppata la cultura, la sinistra gode di una posizione ereditata più che meritata. Invece di fare una bella autocritica, se non di facciata, mantiene intatta la convinzione di essere superiore alla destra in ogni campo.
Per coltivare una simile illusione non c'è neppure bisogno di studiare e di produrre qualcosa di significativo. Non servono neppure una visione della società e una idea di futuro. Basta esserne convinti e ripetere a pappagallo le parole d'ordine, al massimo aggiornate al politicamente corretto.
Per questo, a un certo punto, il comico è entrato a pieno titolo nell'agone. Il comico italiano fa politica, è il leader del partito dei buoni. In tv e sui giornali dominano i comici della trasgressione consentita, i battutisti di regime, i rivoluzionari con la pensione, gli indignati un tanto al chilo d'oro, i moralisti della domenica, gli eterni perseguitati da nessuno, i giullari fedeli alla linea, i censurati immaginari, i contestatori del libero mercato con il codice a barre stampato in fronte, i fustigatori di indifesi o indifendibili, insomma gente che racconta mediocri barzellette a senso (politico) unico. Fanno penose imitazioni dei leader di partito, disegnano vignette verbose e vengono intervistati come fossero laureati in scienze politiche. Non si fermano davanti a nulla. Si possono fare battutine e battutacce anche al Quirinale, totalmente fuori contesto, vedi Geppi Cucciari alla recente presentazione dei David di Donatello. A volte tacere non è autocensura ma buona educazione.
Il dibattito sugli intellettuali, si diceva, è infinito. Sul tema esiste una letteratura sterminata che va da Julien Benda a Raymond Aron, da Antonio Gramsci alla Scuola di Francoforte, da Ortega y Gasset a Mario Vargas Llosa. Proprio quest'ultimo, lo scrittore premio Nobel, fu autore di un clamoroso saggio, La civiltà dello spettacolo (Einaudi). Il pamphlet colava a picco la cultura dei nostri giorni, sacrificata in nome del puro intrattenimento. Secondo Vargas Llosa, la «cultura dei saltimbanchi», figlia di una malintesa democratizzazione del sapere, produceva e produce danni incommensurabili. L'analisi sembrava avvicinarsi a quella di altri grandi personaggi: Tom Wolfe, Jean Clair e Robert Hughes.
L'università Luiss pubblica una interessante rivista, La meraviglia del possibile. Il nuovo numero offre una potente riflessione sul ruolo dell'intellettuale, attraverso saggi di Mark Lilla, Alessandro Aresu, Richard Hofstadter e tanti altri. Colpisce il dossier centrale, dove vengono proposti due interventi tutti da meditare, Invito al dialogo di Norberto Bobbio e Il falso idolo della civiltà tecnologica di Augusto Del Noce. Proprio Del Noce diventa il protagonista della pubblicazione grazie al saggio introduttivo di Giovanni Orsina, L'ateismo e la fine della politica, dove è illustrato il ruolo «profetico» di un pensatore, Del Noce, considerato «eretico» per le sue posizioni saldamente collocate nel campo della destra cattolica. Ma partiamo dal testo di Bobbio: trattasi di fucilata in pieno petto all'intellettuale organico. Bobbio stigmatizza la rinuncia a seguire le norme della ricerca scientifica per eccesso di settarismo: «non vi è per l'intellettuale che una forma di tradimento o di diserzione: l'accettazione degli argomenti dei politici senza discuterli, la complicità con la propaganda, l'uso disonesto di un linguaggio volutamente ambiguo, l'abdicazione della propria intelligenza alla opinione settaria». Tradotto: cari colleghi, non state facendo nulla di utile.
Del Noce, tra le altre cose, ci offre una profonda riflessione sulla civiltà tecnologica. Il punto di vista è decisamente originale: «Nonostante ogni apparenza in contrario, le radici della mentalità tecnologica non stanno affatto nello sviluppo tecnico, ma in una deviazione religiosa». Il culto della tecnologia «non è che l'ultima forma, ormai completamente laicizzata, dell'eresia millenaristica». Appartiene al millenarismo l'idea dell'assolutamente nuovo e la distruzione «di tutto ciò, per quel che riguarda le attitudini morali, che l'ha preceduto». L'avvenire felice è collegato alla negazione di tutti i valori passati. Ma questo atteggiamento non ha niente a che vedere con la vera scienza e ancora meno con la Storia. Sul mito della novità (l'uomo nuovo) si fondano le tragedie del XX secolo.
Nella Meraviglia del possibile c'è un altro contributo che merita attenzione: Contro gli intellettuali. Retorica conservatrice e disagio della modernizzazione di Raffaele Alberto Ventura. A dispetto del titolo, il saggio mostra come l'anti-intellettualismo non sia affatto un tratto esclusivo della sola destra (cosa che attiva sempre il retro-pensiero: sono ignoranti, quindi criticano i sapienti). E invece: «L'anti-intellettualismo e la critica del progressismo non sono monopolio della destra.
Addirittura per lungo tempo sono stati elementi integranti del pensiero socialista. Contro Marx, Bakunin denuncia il rischio che sia proprio l'internazionale dei lavoratori a mettere al potere una burocrazia rossa di nuovi sfruttatori mascherati da rivoluzionari».
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