Cronache

Foibe, il racconto di Benvenuti: "Ci chiamavano esuli, noi eravamo solo italiani"

Il pugile Nino Benvenuti, medaglia d'oro alle Olimpiadi del 1960, si racconta: "Quella paura non l'ho sconfitta"

Foibe, il racconto di Benvenuti: "Ci chiamavano esuli, noi eravamo solo italiani"

Nino Benvenuti si appende alle corde del ring, le scavalca. È solo, al centro quadrato. "Ni-no, Ni-no", lo acclamano dalla platea. Lui si guarda attorno e allarga le braccia in segno di trionfo. Non è più il 1960, ma il ring è rimasto lo stesso, conservato come una reliquia nella palestra Audace Boxe di via Frangipane, a Roma. È il ring della XVII Olimpiade, il ring dei grandi pugili: Josselin, Mitzev, Lloyd, Radionyak. Benvenuti li scarta uno dopo l'altro, e conquista l'oro. "I-ta-lia, I-ta-lia". La folla è incontenibile. E pensare che chi come lui arrivava dalle terre dell'Adriatico orientale non veniva neppure considerato italiano.

"Ci chiamavano esuli, come se venissimo da chissà dove, ma noi eravamo italiani, io - dice - sono stato un privilegiato perché la boxe mi ha salvato". L'attimo dopo s'inginocchia, come in preghiera, e bacia il tappeto con devozione. Quel quadrato non è solo il ricordo di una stagione fortunata, ma è anche una patria. È tutto ciò che gli è stato strappato e negato. La famiglia Benvenuti, padre, madre e cinque figli, è dovuta scappare da Isola d'Istria (oggi Slovenia) nel 1947. A guerra finita, perché non si poteva continuare a vivere nel terrore. Erano gente benestante i Benvenuti, avevano una bella villa, campi e vigne. Un giorno un graduato vide quegli averi e li desiderò per sé. Così ordinò che venissero requisiti. "Vennero a dirci che dovevamo fare i bagagli e andarcene perché un alto ufficiale aveva messo gli occhi sulla nostra casa e ci si voleva trasferire". I Benvenuti non osano protestare e salutano l'Istria per sempre, direzione Trieste.

"Non ci ribellammo - ricorda - per timore delle conseguenze, voi non immaginate cosa significasse mettersi contro quella gente". I Benvenuti non vogliono più guai. Hanno già trascorso sette mesi di pene per il rapimento del figlio maggiore, Eliano, di 17 anni, claudicante per via della poliomielite. "Non si è mai capito perché lo portarono via, io ancora me lo domando, di noi fratelli era il più buono, il più diligente e il più fragile", dice Benvenuti. "Le guardie dell'Ozna, la polizia politica di Tito, lo prelevarono senza darci spiegazioni". Per i Benvenuti, quel giorno segna l'inizio di un incubo che non si è ancora interrotto. "I ricordi ogni tanto riaffiorano, durante la notte, in un momento particolare della giornata", ci confida Nino sprofondando la testa tra le mani. È come se gli stesse passando la vita davanti. Rivede quelle scene. Le racconta con la voce incerta, commossa. "Quando fecero irruzione in casa ci si gelò il sangue, era come se la nostra abitazione fosse diventata l'epicentro di un ciclone, mamma Dora non si riprese più da quello choc".

Nino all'epoca non sapeva dell'esistenza delle foibe, non poteva certo immaginare che i titini avessero un'indole tanto crudele. Però aveva visto gli amici sparire e in cuor suo temeva che al fratello sarebbe toccata la stessa sorte. "Abbiamo pregato tanto - ricorda - per scacciare i cattivi pensieri che ci assillavano". Per Eliano, fortunatamente, le cose vanno diversamente. "Quando è tornato a casa non era più lo stesso, la prigionia gli aveva ingrigito i capelli, sembrava un vecchio". "A noi fratelli non raccontò mai nulla, forse confidò qualcosa ai nostri genitori, ma loro non tradirono il suo segreto". Benvenuti si interrompe. Ha gli occhi chiusi e sembra riuscire a vederla per intero: la paura. Una presenza oscura, che riaffiora dalle pieghe del tempo. È la stessa che ha costretto Eliano a portare le verità della sua prigionia nella tomba. La stessa che spezzò il cuore a mamma Dora, morta di crepacuore all'età di 46 anni. "È una paura endemica, irrazionale e non finisce mai al tappeto", racconta Benvenuti. "So perfettamente che i tempi sono cambiati e che l'Ozna non esiste più, eppure - confessa - c'è una parte di me che mi dice che devo stare zitto, che ho parlato più del dovuto, e che qualcuno potrebbe venire a prendermi". Ci guarda. Si rende conto che no, noi non lo possiamo capire. Non si stupisce.

"Il vostro mondo non è il mio, viviamo nello stesso mondo - ragiona - ma siamo passati da un percorso diverso".

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