Coronavirus

Francia in ginocchio

a fotografia sembra raccontare la vigilia di un'apocalisse. È un groviglio di linee e di fari che si muove in ogni angolo della ville lumière. Parigi freme, Parigi ha paura, Parigi scappa di casa.

Francia in ginocchio

La fotografia sembra raccontare la vigilia di un'apocalisse. È un groviglio di linee e di fari che si muove in ogni angolo della ville lumière. Parigi freme, Parigi ha paura, Parigi scappa di casa. Non si può neppure immaginare una coda che supera i settecento chilometri. È la resa dell'idea di metropoli.

Fuga, verso il mare, la campagna, i borghi, i paesi. Per svernare, per ritrovarsi o per sognare una villeggiatura, con la speranza un giorno di ricominciare. Il futuro adesso non passa più dal centro.

Tutto comincia con un annuncio. Emmanuel Macron dice che non si sa come fermare il contagio. Non c'è altra strada che fermare ancora tutto. Quello che assolutamente si voleva evitare torna inderogabile. A mezzanotte, annuncia, riscatta l'ora del lookdown, una parola che ormai non ha più confini.

I parigini questa volta non se la sentono di aspettare. Non hanno più pazienza. Ti manca l'aria e se proprio uno deve vivere dentro quattro mura è meglio farlo davanti al mare o al verde o dove pensi di riscoprire le radici. Parigi, di questi tempi, come tutte le metropoli del mondo, ti fa sentire straniero, anonimo. C'è chi va a Nord, verso la Normandia, chi si dirige a Sud in Provenza, Guascogna o in Camarga, chi si rinserra a La Rochelle, chi semplicemente torna nella casa dei nonni e pazienza se è un paesino senza gloria letteraria. Il virus è riuscito a sovvertire pure questo: la Francia non è più solo Parigi. C'è un mondo fuori e bisogna scappare a prenderselo.

Non è la prima volta che accade. Il contagio cambia le mappe, le rovescia, le sospende. Non sai più dove è il centro e la periferia, il grande all'improvviso ti appare troppo grande e ti spaventa. Allora ti viene il desiderio, e illusione, di ritrovare il paradiso perduto. È nostalgia dell'Eden, lì dove il peccato e il male non sono arrivati. È chiaro che poi non funziona. La fuga e il ristoro sono solo una parentesi. È il senso del Decameron di Boccaccio. Ci si rifugia fuori da Firenze, per raccontarsi storie, per aspettare che il peggio sia passato. Per ridere delle nostre paure. Poi si ricomincia. Si torna nella metropoli, sperando che non sia più la stessa. Anzi no, per ritrovarla esattamente come era prima, con gli stessi vizi e le stesse virtù. La vera lezione della storia è che l'animo umano non cambia mai. È monotono, nelle sue pulsioni, nelle abitudini. La paura serve solo a sparigliare per un po' le carte. Ti vengono in mente le parole di Bernard Rieux, il personaggio che racconta La peste di Camus. «Sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e per insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice». Certe volte ti sembra di avere mille anni.

Tutto torna.

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