Funerali di Stato per quei 9 «soldati»

Trasformiamo quelle povere, innocenti vittime, in servitori, inconsapevoli, ma non per questo immeritevoli, dello Stato. E diamo loro una sepoltura ufficiale

Funerali di Stato per quei 9 «soldati»

Allo sdegno, unanime, del governo e delle forze politiche, dopo l'ultima tragedia di Dacca, bisognerebbe aggiungere un piccolo atto, simbolico e insieme concreto: trasformare quelle povere, innocenti vittime, in servitori, inconsapevoli, ma non per questo immeritevoli, dello Stato, e dar loro una sepoltura ufficiale.

Lo diciamo e lo scriviamo senza alcun intento polemico, registrando un dato di fatto che nel tempo ha assunto una chiarezza cristallina: in questa guerra asimmetrica condotta dal fondamentalismo di matrice islamista nei confronti dell'Occidente (c'è anche quella che riguarda la primazia all'interno dello stesso mondo islamico, ma è un'altra cosa ed esula dal nostro discorso), i bersagli principali sono civili, non militari. I «crociati» da sgozzare o da far saltare in aria non portano uniformi, ma abiti da lavoro. Siamo noi, potremmo essere noi...

Ora, noi non andremo dietro al coro della mancata sicurezza, degli omessi controlli, della sottovalutazione del pericolo da parte delle nostre autorità competenti, né ci uniremo alla canea, quanto mai prospera in un Paese che non eccelle in virtù civiche e in saldezza di carattere, di chi, protetto dall'anonimato, dice che in fondo se la sono cercata, se ne potevano stare a casa, erano sfruttatori all'estero di mano d'opera a poco prezzo e altre miserie umane di questo genere. Più semplicemente, pensiamo che uno Stato degno di questo nome e una nazione che non si vergogni di se stessa, fanno dei propri morti in terra straniera un impegno e un simbolo: perché non si ripetano, affinché non siano caduti invano.

Per troppi anni, l'Italia, ma non solo, si è avvolta in una retorica in cui le guerre venivano trasformate in operazioni di pace, i militari non erano soldati, ma tecnici addetti alla sicurezza e altre grottesche amenità a seguire... Adesso che la cronaca ormai quotidianamente ci ricorda che non è così, bisognerebbe decidersi a prenderne atto e a regolarsi di conseguenza. Non si tratta di trasformarsi in una nazione armata, si tratta di cominciare a considerarci come un tutto, come una cosa unica: italiano, dentro e fuori i confini. Sono morti nostri: li rivendichiamo come tali, li onoriamo come tali. Il resto, tutto il resto, è fuffa e/o propaganda.

Si badi bene: qui non si tratta di stare a disquisire sulla liceità o no di interventi armati, sul coinvolgimento o no dell'Italia in confitti altrui, e neppure sull'utilizzo o no di cooperanti o associazioni non governative in luoghi e situazioni ad alto rischio. Si tratta di qualcosa che appartiene al nostro Dna, il lavoro all'estero, l'italiano che cerca e trova fuori di casa sua: riscatto, emancipazione, esperienza, gloria, chiamatela come volete, è quella cosa lì, il motore immobile con cui da secoli giriamo il mondo.

È qualcosa di impossibile da fermare, è un qualcosa che ci caratterizza come italiani più e quanto da italiani fatichiamo a immaginare. È anche per questo che le ultime vittime di Dacca meritano di essere celebrate, difese e ricordate. Noi siamo loro.

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